Dolore, vita marcescente che si fa pacata riflessione poi arrabbiata e singhiozzi di quest’ira accesa che lacera le certezze. Lacerazione dell’io allo specchio che si pone ancora domande, mentre il mondo coi suoi frastuoni e con l’isteria delle sue sconce bruttezze, protervo e irreversibilmente “vivo”, continua a strisciarti negli occhi, lacrimanti un’anima zombi o forse più viva nella sua apparente alienazione di tante maschere grottesche che inseguono soltanto il faceto gioco illusorio di vite artefatte, finte, probabilmente inesistenti.
C’è chi da sbronzo per tutte le notti continua a rimanere lucido e angosciato, chi invece da sobrio rimane euforico di vita per tutta una vita, d’altronde dice l’autore, Costanza, nelle sue primissime righe del suo sofferto e “disturbante” romanzo. Sì, questioni di punti di vista, dell’ottica ingannevole dei nostri occhi collegati all’anima che filtrano la realtà da come la esperiscono, dal proprio vissuto, dal conflitto lucentemente emozionale, dunque anche opalescente, di come vediamo il mondo, se propensi ad amarlo per come invece fa obiettivamente schifo, o se lo rinneghiamo, creandoci la nostra realtà, fatta di sogni bui più luminosi di tanta oscenità falsamente allegra. O forse a certa gente lo schifo piace e lo compiace, non se ne può sottrarre oppure non possiede un’anima pura tale da trascenderlo, da sfuggire la mediocre, lercia, puttanesca esistenza. Un ossimorico respingere e poi amare la vita, attratti e poi reietti a ritrarci nel nostro beato (?) guardarla da una finestra. Per non inzozzarci, per non inquinarci, per rimanere agganciati alla nostra integrità psicofisica.
C’è molta verità in questo libro ma anche delusione che traspare, disillusione enorme, e le parole lucide si alter(n)ano a pensieri “vomitevoli”, in cui il turpiloquio si fa grido inascoltato. Urlare al vento la propria solitudine, il puzzo rancido della vita, della “vista” anzi del Pasto Nudo alla Burroughs. Spesso questo disagio di vivere si sente magniloquente, echeggia nelle nostre viscere apparentemente acchetate, e squarta di dubbi le certezze. La scrittura diventa un flusso di coscienza, incarnazione in prosa di un’anima inquieta che singhiozza, latra il suo dolore. No, non sta bene questa vita, non è calma, ma forse per Costanza il raggiungimento della pace interiore è impossibile, persino un mostro da schivare, da schifare. Perché la vita, pare dirci lui, è appunto abominevole, non risparmia colpi bassi efferati, ferini, potentissimi, e dobbiamo forse solo (r)esistere all’osceno che ci circonda, renderci “ciechi” dinanzi all’orrore, fingere d’illuderci e lusingare il nostro Male per sedarlo con la verità, solo la nudità e l’essenza possono condurci alla ragione dell’essere terribilmente nati umani, creature sbagliate fra creature ancor più ripugnanti dei nostri peccati, del nostro essere tutti merde, come dice lui. Allora ecco la figura del detective, un filosofo dell’anima, uno che come nel Lungo Addio di Altman espia le sue colpe nel cercare colpe altrui, per razionalizzarle, per scappare dal proprio sé erroneo, errante, agghiacciante. Per non esplorare il suo didentro… guardando negli orrori commessi dal prossimo per non specchiarsi dinanzi al suo uomo bestia.
Il libro pian piano si sfalda, diventa un delirio “concentrico” di parolacce e di rabbia che ancora monta, cresce vistosamente, e in qualche punto potrebbe stufare. Poi, all’improvviso sterza verso il suo messaggio, quello che Andrea Costanza, o meglio Andrea SPERANZA, eh eh, ci teneva a dirci.
Siamo tutti forse zombi, condizionati e morti nell’anima, perché così vuole omologante una società che appiattisce i nostri io, e procede in quest’orrida distruzione, “istruendoci” con le sue gabbie istituzionali, dalla scuola, che uniforma il sapere, alla televisione che lobotomizza le coscienze di chi, ora dopo ora, ne è succubo e ragiona come la falsa “giustezza” asettica pretende che ragioniamo. Perché i ribelli non piacciono, sono mele marce da curare, perché si creano sogni che sogni non sono ma asservimento alle logiche di massa.
E il linguaggio si fa sincopato, volgare appunto, perché è fortissimamente iroso, quindi diventa disillusione sofisticata. Un libro forse senza vera trama, la trama è l’alternarsi di pensieri liberi e incendiari, sprigionati da un’anima insofferente che scalcia il dolore di essere nata.
di Stefano Falotico