(IN & OUT) -IN: AMERICAN DREAMZ. The Wolf of Wall Street, di Martin Scorsese
Come un Robert Altman tenuto in piedi da integratori sintetici Scorsese porta a casa un pamphlet antiamericano lungo tre ore che scorrono via velocissime come le strisce di coca consumate da questi protagonisti compulsivi che scena dopo scena fanno sempre la stessa cosa. L’ultima tentazione di un cineasta insicuro, che ha sempre desiderato far parte della famiglia (Hollywood, l’America) per poi scoprire, forse troppo tardi, che l’unica cosa sensata da fare è mandarla a fare in culo
Jekyll e Hyde. C’è un fatto. È praticamente impossibile approcciarsi alla carriera di Martin Scorsese, soprattutto quella degli ultimi – contestabili – dieci anni, senza riflettere sul suo ruolo da “infiltrato” dentro l’industria di Hollywood. Essendo stato da sempre il cineasta dei due mondi, a oggi possiamo definire Scorsese l’unico regista assieme al primo Francis F. Coppola, a tutto Michael Cimino e a loro “figlio” James Gray ad aver tentato in modo dichiarato la disperata e arrogante sintesi tra il Cinema classico hollywoodiano e il Cinema d’autore europeo (in questo caso non contano né Spielberg né Eastwood: il primo è sempre stato dentro il Sistema, anzi lo ha addirittura genialmente costruito; il secondo ha da sempre incarnato un emblema dell’America). Come leggere se non riferendosi a questa (im)possibile idea da emarginato newyorkese quel controverso biopic (probabilmente il punto di non ritorno di molti scorsesiani “pentiti”) che è stato The Aviator: assurdo, ingolfato e schizofrenico tentativo di mettere insieme Welles, Minnelli e la claustrofobia scenografica di un Visconti. In realtà da Gangs of New York in poi tutti i film realizzati dal nostro raccontano il terribile dilemma tra l’essere un cineasta accettato dal Sistema e/o rimanere un autore personale. Come un Jekyll e Hyde in crisi identitaria e afflitto dai sensi di colpa (molto cattolico e molto italiano in questo) Scorsese ha scelto di essere entrambi. E il suo Cinema ha perso parecchio. Eppure tutti i suoi ultimi film, in questa rivista giustamente rigettati e con il punto più basso raggiunto dall’insostenibile Hugo Cabret, assumono in quest’ottica un fascino particolare, oggettivamente “malato”. Sono mostri senili senza un centro, con idee morali, estetiche e ideologiche ambigue, bipolari. Allo stesso tempo però – e con questo il sottoscritto è consapevole di prendersi un bel rischio – sono oggi paradossalmente più interessanti dei suoi grandi film degli anni Settanta, Ottanta e Novanta in quanto terribilmente attuali nel loro essere datati, raccontano il tentativo di scardinare dall’interno il meccanismo dello spettacolo hollywoodiano bluffando coi produttori, col pubblico e perfino con se stesso.
L’ultima tentazione.
In tal senso non ci sono dubbi. Wolf of Wall Street è il “capolavoro” di quest’ultima, sciagurata decade. Con le stesse cocciute certezze di un giapponese rimasto 50 anni in un’’sola deserta del Pacifico, Scorsese prova a prendere a picconate il Sogno Americano in modalità full frontal: dal nudo sconcertante di Margot Robbie a DiCaprio che parla direttamente in macchina, il tentativo disperato di Scorsese qui è comunicare direttamente con un pubblico che forse sente di aver smarrito ma che i 100 milioni di dollari di budget e la filmografia che si porta appresso lo obbligano a intercettare. E allora ecco questa strampalata, eccessiva e plastificata black comedy sull’ascesa e caduta di un broker di Wall Street strafatto di coca, fica e cinismo capitalista molto reaganiano (siamo tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta).
Nella gabbia dorata in cui s’è rinchiuso – budget altissimo, uscita americana natalizia per gli Oscar, DiCaprio protagonista senza freni e produttore – Scorsese prova a districarsi aumentando i giri, dopando il suo cinema e il montaggio della straordinaria (e sostanzialmente co-autrice) Thelma Schoonmaker con movimenti frenetici, dialoghi incessanti e situazioni grottesche. Paga un debito quasi invisibile ma meraviglioso con la Letteratura americana postmoderna di Jay McInerney e soprattutto Bret Easton Ellis, che infatti ha adorato il film, come del resto hanno fatto su Twitter Seth Rogen, Edgar Wright e Greg Mottola rafforzando un legame tra questo film e parte della nuova commedia americana inatteso, da non prendere alla leggera e di cui forse ce ne accorgeremo tra anni. Come un Robert Altman tenuto in piedi da integratori sintetici Scorsese porta a casa un pamphlet antiamericano lungo tre ore che scorrono via velocissime come le strisce di coca consumate da questi protagonisti compulsivi che scena dopo scena fanno sempre la stessa cosa, alla stregua di una impeccabile performance degli Stones modalità Shine a Light (e forse qui ha davvero ragione il nostro Sergio Sozzo nel considerare il documentario sugli Stones il manifesto occulto dell’ultimo Scorsese, in quanto film sul mestiere e sull’esecuzione mercantile). Chissà. Forse è vero che The Wolf of Wall Street non aggiunge molto altro rispetto a un Casinò. I denigratori in tal senso hanno più di un argomento a loro favore. Ma vederlo, rivederlo e ascoltarlo è una goduria pazzesca. E quel finale, con quel controcampo rivolto a una platea passiva, inebetita e in cerca di un nuovo Messia del denaro facile, è una delle illuminazioni più lucide e dolenti viste in sala negli ultimi tempi. L’ultima tentazione di un (cineasta) italoamericano insicuro, che ha sempre desiderato far parte della famiglia (Hollywood, l’America) per poi scoprire, forse troppo tardi, che l’unica cosa sensata da fare è mandarla a fare in culo. Fuck you USA.