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HALLOWEEN: Venezia, la città del JOKER – Un racconto di Stefano Falotico e tutti a vedere THE IRISHMAN


01 Nov

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Dopo la parte divertente, ladies and gentlemen, dopo la mia brevissima esegesi su The Irishman, il pezzo forte.

Ovvero, un racconto di sublime fattura e melanconia pura.

Poiché, bambagioni, ricordate:

il Falotico sa essere battutista, grande autista e a volte nichilista, nei giorni no è un fancazzista, quando è triste diventa semi-autistico e sfodera espressioni da ebete come Ryan Gosling, ma è uomo nonostante tutto di carisma.

E scrittore trasformista. Che può servirvi una barzelletta da lui riscritta, recitata con far da poliedrico artista, ma anche un racconto gotico e al contempo barocco.

Il Falò non è un uomo ricco e, a differenza di quando fu infante, non è più riccio.

Eppure vive al di sopra di ogni squallido moralista, è un uomo iper-sensitivo che non ha bisogno di parlare come un qualsiasi deficiente logorroico e triste, sa porsi a un concettuale livello della realtà da lasciare annichiliti tutti col solo potere dei suoi denti ingialliti e del suo fascino da uomo giammai finto né ancora coi capelli tinti.

Non lo fate incazzare, pensando che sia un coglione perché, altrimenti, da apparente quasi handicappato, diventa qualcosa che nessuno aveva previsto.

Venezia, la città del Joker

Come molti di voi, cinefili appassionati e amanti della più roboante, fulgida Settima Arte smagliante, sapranno, alla 76.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fu presentato Joker con Joaquin Phoenix.

Ecco, io fui tra i fortunati ad assistere all’anteprima stampa di tale magnifica pellicola giustamente incensata dalla critica, già amatissima dal pubblico e in vivida, squillante rampa di lancio per sbaragliare la concorrenza alla prossima edizione degli Oscar.

Poiché, dopo una fila interminabile, dopo un’attesa spasmodica di proporzioni disumane poiché, febbricitante ed eccitato, elettrizzato e ammantato dal sole furentemente abbacinante dell’ultimo cocente giorno d’agosto atmosfericamente assai rovente nel quale, di première mondiale molto eccitante, Joker fu proiettato, sudai accaldato e d’anima piacevolmente accalorata fra la calca degli spettatori allineati dietro le transenne ad aspettare che le maschere strappassero i nostri biglietti, fremendo nervosamente esaltato nell’essere già incoscientemente consapevole che avrei visionato un film immediatamente annettibile alla storia del cinema più emozionalmente sfolgorante e indimenticabilmente eterna, radiosamente conturbante.

Tanta mia infinita, sudata attesa non fu affatto delusa. E, a proiezione terminata, di Joker rimasi ipnoticamente estasiato.

Un capolavoro sostenuto da una superlativa prova attoriale di un Joaquin Phoenix monstre, spaventosamente bravo e, in ogni senso, paurosamente magnetico.

Capace d’infondere al suo personaggio tutte le imbattibili, malate afflizioni di cui innatamente soffrì imperituramente, capace di trasfondergli tutta l’esiziale sua dannazione tremenda, tutta la sua lancinante flagellazione atroce e la commovente disperazione di un uomo che, dopo un’immane solitudine sin troppo dolorosa, dopo tanti suoi romantici e al contempo disperati patimenti strazianti, risorse feroce, erigendosi nella gloria apoteotica d’una vendicativa rinascenza stupenda, furibonda, ambiguamente armonica e spietatamente catartica.

Finita la proiezione, dopo la standing ovation sacrosanta tributata a quest’epocale pellicola già storica, dopo il doveroso tributo riservato a questo fortissimo instant classic oramai già considerabile come un’indelebile pietra miliare meravigliosa, passeggiai in lungo e in largo per il Lido veneziano.

Dunque, ancora avvolto dall’alone del magico incanto trasmessomi nell’anima da tale pellicola straordinariamente romantica e vigorosamente stupefacente, a passo felpato, discretamente ritornai nella mia camera d’albergo.

M’assopii per molto tempo e, al mio risveglio, con mio sommo stupore m’accorsi che il tramonto già declinò nella cupezza spettrale della notte più fonda e ancestrale.

Al che, dopo essermi sciacquato il viso, dopo essermi adeguatamente pettinato e rassettato, con enorme compostezza ed energica spavalderia, uscii dalla mia camera per immergermi nuovamente tra le fioche luci intermittenti e sottili d’una notte veneziana misteriosamente tenebrosa. Che illuminò il mio cuore di nuovi, impennati, inaspettati, emozionali bagliori e onirici, esistenziali turbamenti imprevisti, accarezzandomi di soavi, tetri torpori e di delicatissimi, emotivi languori bellissimi.

La strada era assolutamente deserta. Come se fossi precipitato in un film di zombi ambientato in laguna.

Mi fermai a una fontanella e bevvi ogni goccia zampillante d’acqua limpidamente sgorgante, sorseggiandola fra le mie labbra insecchite dall’afa di quest’arida notte dai lineamenti mortiferi e poco raggianti.

Quindi, mi sedetti a una panchina. Situata nel mezzo di un parco desolato, avvolto dalle rifrangenze rarefatte dei raggi lunari mescolati alla flebile illuminazione di antichi, rustici fari.

Sprofondai nella più mistica contemplazione, rimembrando i miei inquietanti trascorsi. Rivivificandoli nel fulgore melanconico d’una sopravvenuta, mnemonica rinascenza fervida.

Poiché, nella leggera rievocazione del mio ondivago, turbinoso passato enigmatico, sentii accendersi dal profondo della mia anima fremente lo scalpitio e il potente vibrare d’ogni mio apparentemente appannato, dimenticato ricordo che credetti d’aver nel mio inconscio per sempre seppellito, d’aver sigillato e inconsapevolmente rimosso, d’aver segregato nel mio cuore inabissatosi nella più nera dimenticanza torpida. Imprigionato come fui tra gli anfratti ingannevoli dell’amnesia più criptica, obliante ogni mia addolorante ansia che però pensai d’aver definitivamente vinto nel mio spensierato presente sereno, poco rischioso e non più meschino, in verità ancora poco lindo.

Risentii, con vigore e vivissimo dolore, le emozioni persesi fra i meandri felici della mia apparente, attuale, immacolata lindezza cristallina, rivivendo immantinente, nel ricordo più a me ferente, i tempi assai bui in cui, invece, prima di evolvermi a ritrovata, sfavillante vita rigeneratasi, mi smarrii e angosciai come il personaggio di Joker, eclissandomi tristemente nel perpetuo, ectoplasmatico, mortificante tormento.

Oh sì, m’assonnai nel disincanto e nell’amarezza, trafitto da perenni, estenuanti dubbi amletici e avvinghiato da paure permanentemente preoccupanti.

Celandomi nel silenzio più terrificante, triste e agghiacciante.

Come Joker, son qui adesso a Venezia. Una Venezia deserta in cui non passa anima viva, rischiarata da un plenilunio fluorescente e luminosamente flebile, ai piedi d’una luna piena che coi suoi teneri, morbidi riflessi, ogni mia trascorsa sofferenza illanguidisce e coccola come un bambino allegro che ride, giocando col dondolo.

Infatti, alzando gli occhi al cielo, da lassù, questa luna gioconda vedo brillare e mi sembra che il suo volto ovale sia stranamente truccato dalla cosmesi decorativa dei suoi indistinguibili, luciferini, indistinti eppur profondi crateri che l’umanizzano in una parvenza da sinistro viso demoniaco simile a quello d’un pagliaccio scuramente ridente.

Qui, solo a Venezia, mi sento come il clown Joker, impallidito dall’era mia trascorsa in cui giacqui nella brace della mia insanabile ira primordiale che, dalle tenebre del mio passato a me stesso ignoto, sta forse armoniosamente corroborandosi e intonandosi alla maschera più vera del mio innato ribelle dannatamente sincero, sta dipingendomi nella svelata bellezza pindarica della mia anima colorita, pregna e intrisa di tante contradditorie, giuste emozioni variopinte, un’anima che, per troppo tempo, ingiustamente punendosi e colpevolizzandosi senz’alcuna ragione concreta, si dissipò nella tetraggine per colpa di tanti miei incontri sbagliati e a causa della viltà crudele di tanti amici infingardi e assurdamente maligni.

Qui, nello scroscio pacato della mia riagguantata acquiescenza, sulle rive della mia perennemente tormentata, mai terminata fanciullezza assai poco moderata, invero spesso molto opaca e da mille dubbi nella spensieratezza, da me dilapidata, amaramente obnubilatasi, rifletto sulla mia adolescenza oramai andata, soventemente dai bulli e dagli invidiosi scalfita e sbudellata, da me stesso bistrattata, destrutturata, oscurata, vilipesa e odiata, auto-ingannata o soltanto vigliaccamente stigmatizzata a causa solo della mia troppo verace, vivace e vorace, nevrotica ilarità smodata.

Cosicché, al tintinnare di questo primo sole di settembre, inebriato dalle mie invitte, intatte emozioni squinternate, penso che or andrò a cercare un bar ancora aperto, nonostante l’ora assai tarda.

Per bere un liscio caffè forse macchiato caldo come la mia anima nuda e cruda e la mia carnagione cangevole, oggi bianchissima, domani scura, come il mio carattere adesso fermo e deciso, in futuro ancora ballerino e poco sicuro, come la mia stramberia da uomo ex smidollato, permeato e adombrato da umori assai mutevoli e maculati.

Son un uomo fuggevole, a tratti amabile come la gustosa, estatica leggiadria d’una donna fascinosa col suo irresistibile profumo fragrante e dolcemente avviluppante.

Mi sento un commediante, un comico fallito, un uomo rinato, forse qui a Venezia il Joker reale, persino regale, sono io.

Lasciatemi dunque ammirare il mare adesso in burrasca e, ripensando alla follia inutile del mio disordinato, giullaresco, penoso passato, fate sì che pienamente comprenda che le tormente del mio essere stato naufrago della mia buffa esistenza sono solamente, ora che è finita la tempesta, sciocche inezie a cui porgere un sorriso beffardo.

Poiché la vita di noi tutti è ridicolmente farsesca e siamo tutti dei Joker che aspettano l’onda vincente d’un grande sogno spumeggiante nell’alta marea infinita dei nostri mille, umanissimi abissi.

 

di Stefano Falotico

Si muore sempre a Venezia? Chi l’ha detto? So che questa società mi ripugna, le mie rabbie impugno, pugnace non arretro, c’è tempo per crescere come gl’imbecilli


03 Sep

Cagnotto gambe

 

Vivo in un Paese dove tutti credono in Dio e nessuno se ne interessa. Io non credo in Dio ma me ne interesso molto.

La nostra società è disfatta, e la borghesia è morta, il teatro non esiste più, l’’erotismo è stato fagocitato dal consumismo, ci hanno anestetizzato, imbottito di tranquillanti, sono riusciti a non farci più reagire. Hanno proprio vinto gli imbecilli, gli idioti.

I giovani sono più fregati di noi. Non leggono, non hanno vere curiosità. Si gonfiano di slogan che sostituiscono alla cultura e spacciano per cultura, senza aver nulla da dire. Urlano e fanno rumore. Sono già pronti per l’archivio. La nostra è una società che archivia tutto, mette tutto in grandi scaffali. Sono le riforme, le così decantate riforme.

 

Queste alcune delle provocazioni di Carmelo Bene, che a mio avviso non erano affatto provocazioni. Credo che credesse davvero alle sue parole.

Un mio amico mi ha detto che la frase si muore sempre a Venezia è di Bene. Ah sì, Lorenzaccio. Non lo so, non mi risulta. So soltanto che Morte a Venezia è di Thomas Mann, e che c’è l’omonimo, famoso film di Visconti con Dirk Bogarde.

L’ultimo volta che son stato a Venezia è stato nel 2014, ultima volta, peraltro, per cui mi recai a questa fanfaronata chiamata Festival. Alloggiai in un albergo gestito da monaci ove, se ti scoprivano intento a fumare, chiamavano la Municipale. Stetti in camera con un mezzo matto, in realtà un ragazzo confuso, parlava sempre di fighe e figotte, di blowjob e “cose affini”. Un ragazzo tormentato che provai a curare. La nostra “relazione”, non fraintendete, voi che pensate sempre male, non vi è mai stato nulla di omosessuale, finì con me che gli diedi un sonoro calcio in culo, detonandogli tosto in viso un urlo allarmante. Lui, spaventato, corse via, tornando in albergo. Anch’io, dopo essermi fermato a un bar, a bere un caffè e ad ammirare il ricco panorama di donzelle dai culi basculanti, in quel decadere di fine agosto con le sue ultime solarità erotiche, feci ritorno all’albergo. Ove il “gentil” signore aveva già messo in guardia la receptionist, dicendole che nelle sere seguenti avrebbe dormito da solo. In poche parole, mi aveva “sfrattato”. Cercai di patteggiare con costui, di concordare un compromesso. Ma, offesosi a tal punto per il mio gesto sfrontato, mi disse imperiosamente che non voleva mai più vedermi in vita sua. E non aveva dunque per niente intenzione di stare in una stanza in compagnia del sottoscritto. Io avevo ordinato i biglietti e, da enorme gentleman, mi congedai, senz’aggiungere altro, conscio di aver ferito il suo animo ancora non pronto a un sano litigio virilmente amicale. Troppo pudico nonostante, come detto, si desse un tono da uomo fatto, che invero parlava dalla mattina alla sera di cosce femminili e orgasmi fetidi.

E gli lasciai in dono i biglietti delle proiezioni di due film con Pacino, Manglehorn e The Humbling.

Sì, era l’anno di Birdman, che aprì le danze, e quello fu infatti l’ultimo film della kermesse che vidi e che, penso, vedrò lì al Lido. Un film che impiegai molto a metabolizzare. Gl’impiegati lo snobbarono in fretta, io son sempre restio, dinanzi alle opere complesse, a emanare un giudizio affrettato. Su due piedi, come si suol dire, poco mi convinse, anche perché non ero ancora dotato di occhiali e capii ben poco dei sottotitoli. Il mio inglese è soddisfacente, infatti per il 90 per cento lo compresi, ma non è così ottimale da poter apprezzare le sfumature anglosassoni di alcune battute topiche. Capii comunque che la Watts dava la sua topa a Norton, uno con la faccia da castoro. Come la Cagnotto, di cui parlerò poi.

Credo, oggi come oggi, che Birdman sia un grande film.

Detto questo, devo andarmene, fuggire, gettarmi nel mare veneziano e nuotare nelle profondità marine come il “mostro” di The Shape of Water. Lontano da questa realtà meschina, abietta, ripugnante e miserabile.

Ecco che la mia vicina di casa, Angela, ricomincia a scassare il cazzo. Non poteva rimanere ancora al Lido? Sì, degli Estensi. Ogni volta che arrivo con l’ascensore sul mio pianerottolo e lei spalanca la porta:

– Ah, scusa. Non pensare che ti spii. Lo so, ogni volta succede… è… che penso sia mio marito, Mario, oppure mia figlia che viene a farmi visita. Sento chiudersi l’ascensore e… beh, scusa.

 

Ha rotto veramente il cazzo. Davvero.

Ma, a dire il vero, anche Facebook me le ha scassate a dovere.

Impazzano i pazzi, i frustratissimi che, dopo giornate di lavoro alienante, sfogano tutti i lor mal di pancia in post osceni.

Abbiamo, da un po’ di tempo a questa parte, anche la “bella figa”. Ora, chiariamoci, questa di natiche sta messa bene. Sostiene che il seno è il suo pezzo forte. Sì, è siliconato, ma ci sta… La faccia è di culo, ok.

Sapendo di essere molto bella, dunque di attirare le ingordigie maschili, esagera con provocazioni a raffica. Dicendo che non è poi così gnocca. Perché le sarebbe assegnato solo il terzo posto a livello mondiale dopo la Jolie e la Theron. Dice che il suo ragazzo ha problemi erettili e che, quindi, è in cerca di qualcuno, voglioso, che assai presto la faccia godere come una matta, visto che invece è sanissima… Consapevole che nessuno dei suoi corteggiatori di Facebook sarebbe alla sua altezza. Tanto per scatenare faide e altro pullulare di uomini bavosi alla conquista della sua donna inarrivabile dal seno maestoso. Ecco allora che questi sfigatissimi idioti scrivono a lei, nei commenti, poesie d’amore, nel patetico tentativo di far breccia sempre in lei, chi sennò, lei che si vende eppur non la dà, attizzando a volontà e godendo da voyeur che ride sotto i baffi di tali cascamorti stupidissimi. I suoi cucciolini…

Insomma, lei dice che se ne fotte di tutto e tutti. Perché sa di essere bona!

Questa a Nadia Cassini che fu fa un baffo…

Sì, io che faccio per migliorare questo mondo? Non tanto. Scrivo libri e monografie, effettuo recensioni cinematografiche, perlopiù m’informo. Le parole sono importanti! Sosteneva Moretti in Palombella rossa.

Sì, lo sono, le parole smuovono le coscienze, aprono la mente, danno una maggiore visione prospettica all’infima e nana realtà di tutti i giorni. Le parole estasiano, le parole sono tutto quello che abbiamo.

Perché, sì in Italia, tutti non vedono l’ora di crescere… e sistemarsi. Una volta sistemati, diventano menefreghisti, fanno le boccacce nei selfie con gli amici, o meglio pseudo tali, dei ruffiani leccaculo, tanto la panza è piena.

Checco Zalone, lo ammetto, fa ridere anche me. Soprattutto nella parodia di Cassano e quando storpia La locomotiva di Guccini. Sì, perché i giovani d’oggi, tanto forti e “fighi”, devono trovar lavoro con Indeed e Job Act! Perché in Italia, The Sisters Brothers di Audiard viene subito strumentalizzato e, nelle mani, dei radiocronisti e dei presentatori dei programmi pomeridiani della RAI, diventa un oggetto di studio sul conflittuale rapporto tra fratelli, sul difficile growing up esistenziale che acquisisce una dimensione sociologica attuale nella contemporaneità consanguinea dei nostri interpersonali scontri generazionali.

Sì, l’Italia è questa. Un Paese ove tutti vanno al festival e vogliono dire la loro, con la “cultura” dei neo-laureati da Giovani Marmotte, un’Italia che si scompiscia per Cristiano Militello!

E non ha il coraggio di dire che segue le olimpiadi di nuoto sincronizzato e le tuffatrici solo per avere erezioni purissime dinanzi a queste donne perfettamente lucenti di cosce stratosferiche.

Tania Cagnotto, ti ringrazio, per i tuoi tuffi. Zampillavo… a non finire. Da medaglia d’oro. Lustrato in modo aureo, a mille carati…

Io sono onesto, lo sono sempre stato. Per questo sono davvero un “santo”, un poeta, un navigatore.

 

Purtroppo, vorrei smentirmi e dir di non esserlo, per farvi felici. Sono realmente un genio. E questa è una tragedia immane. Una delle più grandi tragedie della Storia. Purtroppo.

 

 

di Stefano Falotico

Ho sempre preferito Clint Eastwood e Bob De Niro a Fellini


23 Nov

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Ebbene, come i veri cinefili sapranno, fra pochi giorni uscirà il trailer del nuovo film di Clint Eastwood, un uomo che alla soglia dei novant’anni è in piena attività e non smette di stupirci col suo Cinema classico, improntato a storie realisticamente poetiche, spesso criticato, soprattutto in passato, di essere un “fascista” quando poi invece si scoprì che non era fascismo reazionario il suo ma solo la poetica battagliera, spesso intransigente, personalissima di autore micidialmente splendido.

Ecco, più guardo i film di Eastwood e più ne rimango affascinato. Pur respingendo alcuni suoi film, ritengo che praticamente tutto ciò che ha realizzato negli ultimi trent’anni sia degno dei più sperticati elogi. Anzi, non solo… credo fermamente che cosiddette opere considerate minori come Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Fino a prova contraria o il magnifico Debito di sangue siano altresì, e non vogliono sentire “scusanti” o ragioni, dei capolavori assoluti.

Prendiamo proprio Blood Work, con l’inseguimento al cardiopalma, infartuato (sì, questa parola esiste e ricordatela quando, se avrete un infarto, potrete poi dire ai vostri amici che vi “infartuaste”, anche se loro, essendo romantici, vorrebbero che nonostante il colpo al cuore voi ancora v’infatuaste per una donna in cui “trapiantarvi”, ah ah) dell’incipit straordinario, talmente “ingenuo” da commuovere… ah, la commozione cerebrale… ah ah, sì, il Cinema di Eastwood desta in noi sentimenti di sentito affetto tale da farci piangere di entusiasmo.

Ecco, Eastwood, potrei dire che mi appartiene “geneticamente”. E condivido quasi tutto del suo Cinema, fiero, secco, senza retorica, puro, cristallino come un bacio in bocca al giorno triste quando la nebbia dei pensieri si accavallano e ci fanno gustare male un cappuccino perché abbiamo troppe “brioche” nel non essere propensi alla cremosità verso un modo angosciante che screma la realtà fra buoni e cattivi, fra cornuti e cornetti. Ah ah.

Invece, il signor Federico Fellini non l’ho mai amato né credo che, nonostante provi ostinatamente a farmelo piacere perché piace quasi a tutti, mai e poi mi piacerà. Ieri, su Facebook scrissi che Roma è una cagata pazzesca. E, come volevasi dimostrare, fui coperto dei peggiori insulti, attaccato persino sul personale. Sì, la gente contro di me inveì, nello sfogo di tutte le parole più vergognose che si possano rivolgere a un Falotico che dice, umilmente, la sua.

Sebbene abbia ricevuto, va detto, anche apprezzamenti, per questa mia uscita “blasfema”, da parte di gente che l’ha sempre pensata come me ma non ha mai osato dirla… per la paura appunto di essere vilipesa e derisa. Sì, qualcuno si è complimentato col mio coraggio, addivenendo con me che Fellini è un regista enormemente sopravvalutato, figlio, nel male più che nel bene, della sua epoca, schiavo di un provincialismo da cui non si è mai staccato perché “non gliela faceva” ad andare oltre un Cinema “paesano”, folcloristico, ossessionato dalle sue nostalgie giovanili, afflitto dalle sue donne grasse e volgarone, un Cinema perfino “caciarone”, solipsisticamente delirante nel senso peggiore del termine, che infatti tanto “eccita” la moltitudine dei suoi estremi ammiratori proprio perché ritrae, a mio avviso, non me ne vogliate… la mentalità “italica” e borghese per eccellenza di una italianità che ama vedersi dipinta come in effetti è, e s’imbroda nel guardare l’ombelico delle sue rozze limitatezze. Un Cinema fatto di “amarcord”, di ricordi “caserecci” misti al goliardico compiacersi del godereccio anche triviale, un Cinema persino “televisivo”, di luci del varietà e pagliacci di scena, un Cinema superficialmente sociologico che va sempre bene quando appunto i tuttologi della mutua di oggi vogliono pontificare sulla società, allorché citano La dolce vita e poi I vitelloni, per far della sociologia spicciola sulla Roma “bene” e poi sui bamboccioni irredenti di un’Italia che non è cambiata, nonostante non creda più al Duce e nemmeno tanto al Papa…

Il Cinema è la prospettiva di uno sguardo, e lo sguardo di Fellini proprio non si sposa col mio, questo matrimonio non s’ha da fare, non c’è un cazz’ da fa’.

A tal proposito, La voce di New York, a proposito del progetto Ferrari con De Niro scrisse le testuali parole…

È “Ferrari”, opera cinematografica sulla vita di Enzo Ferrari, creatore e anima della leggendaria Ferrari, prodotta da Gianni Bozzacchi, nome nuovo per le nostre orecchie, bene così: la speranza, che sul piano dell’intuito, del “naso” del cronista, riteniamo fondata, è che Bozzacchi s’imponga come un caposcuola, caposcuola di una generazione di produttori i quali detestino il “facile”, lo scontato, il convenzionale: vale a dire tutta la retorica dell’antiretorica firmata fratelli Taviani, Lizzani, Monicelli; tutta l’oleografia firmata Salvatores, Tornatore, Fellini: sì, Fellini, avete capito bene, care lettrici e cari lettori, il sopravalutatissimo regista romagnolo, capostipite d’una schiera di registi e aspiranti-registi incapaci come lui di cogliere il vero aspetto epico della natura umana, del carattere italiano; cantori d’una miseria raccontata malissimo, affronto alla miseria stessa e quindi all’oggettività sociale e morale; presi da una malsana attrazione verso il brutto, verso l’orrido, il nauseante. Lontani anni-luce dal realismo inglese degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, e dal cinema sociale americano…

Non c’è ancora il regista. De Niro punterebbe su Clint Eastwood. Idea brillante, questa, non c’è che dire. Eastwood è forse il regista americano più versatile, il più preparato, quello fornito d’un pensiero, di un’indole cosmopoliti; persona di eccellente cultura, tanto da rifiutare d’indossare i panni dell’intellettuale di professione il quale passa la vita a fingere modestia e umiltà quando invece rappresenta l’esatto contrario e riesce a imbrogliare un mucchio di gente e a riscuotere il plauso di quelli fatti della sua stessa pasta, insapore, stracotta…

Un film che ci voleva davvero. Una grossa, forte idea dinanzi alla quale dovrà pur rimpicciolire certo cinema italiano che si perde con gusto malsano nella politicizzazione della Storia, mostra un’assai morbosa attrazione verso i peggiori istinti umani, soffre tuttora d’un provincialismo di cui non sa, o forse nemmeno vuole, liberarsi.

Orson Welles sosteneva che Lo sceicco bianco e I vitelloni sono infatti i film migliori di Fellini, proprio perché dichiaratamente provinciali. Sinceri nel loro messaggio, mentre il resto della filmografia, a suo avviso, è stata la patetica ricerca di un provinciale di diventare qualcos’altro.

Come dargli torto?

Potete anche lapidarmi, ma sono su Fellini lapidario.

Ma quale Fellini e donne felliniane, siate felini e non siate ragionieri come Filini.

E smettetela di mangiare tortellini col prosciutto di Parma.

E poi preferirò sempre gli spaghetti western alla pubblicità della Barilla sui rigatoni. Ah, Federico, ma quanto ti pagarono per quella stronzata di spot?

E poi dovevi fare più sport.

Sei stato sempre un regista di panza, in ogni senso, a differenza di Eastwood che più invecchia e più è meno magna magna.

di Stefano Falotico

TRUE CRIME, Clint Eastwood, Francesca Eastwood, 1999

TRUE CRIME, Clint Eastwood, Francesca Eastwood, 1999

Venezia 74. Le nostre anime di notte, la vecchiaia che vi aspetta…


01 Sep
Our Souls At Night

Our Souls At Night

Dopo una vita di sacrifici, “interstizi” e dolori, gioie estemporanee, alzate di testa e soprattutto un lavoro che avete sempre detestato ma vi dava da mangiare, arriverete al bivio come i protagonisti di questo “dark universe”, Le due mummie, film in cui Tom Cruise invecchiato recita nella parte del “vivace” Redford in cerca di consolazione con la Fonda. Invero, non scherziamo sui volti rugosi dei due divi d’antan, sono ancora capaci di “illuminare” la senilità senza sfoggi machi da Sfida senza regole. La Fonda è rifatta e a niente servì il lifting naturale della ginnastica, Redford si porta male i suoi 80 anni con la classe del suo “Leone moscio alla cerniera”. Sì, una volta Robert “spingeva” e oggi invece, tolto il Sundance Festival, prepara manicaretti nelle nights di queste solitudini culinarie, in cui si prende la vita, guardandola con distanza, un po’ a cul(atell)o.

Eppur il Mereghetti, anch’egli oramai andato e in terza età abbondante, lo ha incensato, e ho letto anche questo su un altro sito:

il film riesce a catturare perfettamente quella vena malinconica e nostalgica che caratterizza la vita e la quotidianità dei due protagonisti, senza mai sprofondare nel rancido o nel greve, ma al contrario costruendo momenti di rara eleganza e raffinatezza, in cui i sentimenti non vengono mai ostentati, ma filtrati piuttosto attraverso un gesto, uno sguardo, una domanda posta quasi sottovoce.

Le Nostre Anime di Notte è un film genuino nella forma e nei contenuti, estremamente dolce nel messaggio che intende veicolare con assoluta purezza, mostrando tutta la bellezza e la semplicità di due vite ad un punto di svolta. È anche però la celebrazione di due autentici fuoriclasse che, nonostante gli anni, riescono ancora ad esprimere tutta la complicità e l’empatia che li hanno resi una delle coppie di attori più amate del mondo del cinema.

 

Sarà vero o questi amorfi vecchietti hanno sinceramente rotto appunto anche i coglioni dei rincoglioniti?

Un film che invero non ha molto da dire ma, si sa, Renato Zero aveva ragione…

vecchio sì, con quello che hai da dire…

Genius-Pop

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