Ebbene, amici, vi racconto questa. E se non mi siete amici poco importa, tanto me la son sempre cavata da solo, tirandomi fuori dalle impasse con le mie forze e fu inutile che mi sgolassi, urlando al lupo al lupo, tanto mi lasciarono deperire, deambulare fantasmaticamente nella brughiera delle mie perdizioni, permettendo che la mia anima si dissanguasse, trafitta dalla più afflittiva malinconia. No, non faccio dei piagnistei la mia forza di volontà, non sono il tipo che si crogiola nei rammarichi e nella più inconsolabile, gridante, supplicante mestizia. Forse, proprio in virtù del mio tener tutto dentro con discrezione da far impallidire anche Cristo, che dinanzi alla verità del mio cuore, che lui in maniera appunto veritiera sonderebbe con doti da veggente delle mie interiori profondità, s’adirerebbe non poco e mi spronerebbe a bestemmiare, ecco, proprio a causa della mia eccessiva riservatezza, di questa atimia che mi blocca perfino nel rivelare i miei insanabili malesseri, appaio una persona, paradossalmente, estremamente lieta e felice.
E l’altro giorno son stato da uno psichiatra. Ecco svelato l’arcano. Ma come? Uno grande e grosso come me si presuppone che abbia tutte le qualità possenti della sua stabilità emozionale per non cadere nelle mani di uno strizzacervelli. E che fa? Va da uno di questi?
Devo confidarmi che io disistimo gran parte dell’umanità ma continuo, chissà perché, a dar fiducia al prossimo. E quindi volevo confrontarmi con qualcuno esperto o uno che almeno ha le credenziali formali per spacciarsi come tale, per aprirmi e donarmi sinceramente, in piena remissione dei miei dolori esistenziali.
Ma non avvenne nessun transfert. Il transfert sapete cos’è, no? È quel semplice, almeno all’apparenza, meccanismo mentale che permette al “paziente” di trasferire il suo inconscio e il suo sentire all’interlocutore e, dall’empatia che si spera ne sortisca, discutere costruttivamente della sua vita, nel comprendere che l’interlocutore è in sintonia, anche se in disaccordo dal punto di vista ideologico, con la sua anima, e quindi da quest’interscambio, quasi “telepatico”, poter intervenire sulla sua stessa esistenza per un fine benefico. Per ritrovare la serenità smarrita o persa nei meandri delle tormentose tribolazioni.
E attuare un’opera radicale di rinnovamento alla sua intralciata, soffocata o compressa vita poco anelata e amata.
Io e lo psichiatra parlammo per mezz’ora abbondante in un reciproco gioco di sguardi complici e ammiccanti. Chiamatele vicendevoli ruffianerie o sciocche carinerie, oppure più semplicemente reverenziali leccate di culo. Ove uno pensa una cosa negativa riguardo a ciò che dice l’altro ma l’asseconda per fare bella figura e risultare affabile, simpatico, alla mano. Affinché, arrivati nel bel mezzo della “terapia” conversativa, nessuno dei due, soprattutto il paziente, possa aver paura di chi gli sta fronte e quindi potersi esporre in totale franchezza e denudata onestà morale e psicologica.
Lo psichiatra, dopo aver appurato, ascoltandomi parlare, il mio forbito ed erudito, colto e ponderato saper chiacchierare amabilmente, pose repentinamente fine al mio delicato, per quanto sofferente sfogo, con una lapidaria, brusca autorevolezza da lasciarmi interdetto.
– Sa, è inutile che vada avanti nel suo racconto. Ho inteso molto bene e non c’è bisogno che aggiunga altro. Questo, sì, che sarebbe offensivo alla mia intelligenza. Perché, se mi ripetesse le cose ancora e ancora più e più volte, finirei col credere che mi avrebbe preso per un cretino. Le sue parole son state precisissime, argute e inquadrano perfettamente la situazione. Ripeto, sarebbe retorico e fastidioso che le colorisse di altre perifrasi. È tutto lapalissianamente talmente chiaro che solo un tonto fraintenderebbe.
Ma sa, io devo esserle sincero. È il mio lavoro l’essere sincero, e amo esserlo coi pazienti, persone a cui voglio molto bene e per le quali mi prodigo affinché migliorino proprio il loro benessere.
Lei non è uno qualunque e ha un grosso fardello sulle spalle. Anzi, da levarsi dalle palle. Vari esperti in materia, professionisti seri con anni e anni di studio, qualche tempo fa, hanno asserito che lei soffre di un disturbo molto grave. E, nonostante la sua schietta umanità, la dolcezza perfino commovente della sua storia, io non me la sento di contestare queste diagnosi. Se non, tutto sommato, dar loro ragione.
– Guardi, non capisco. Le ho già detto che quelle diagnosi furono affrettate e molto, molto superficiali. Lei oramai mi conosce da tempo e, se ho capito qualcosa del nostro rapporto medico-paziente, credo di aver anche inteso che lei è sempre stato, in linea di massima, in disaccordo con quelle “certificazioni” molto ipocrite e approssimative.
– Sì, è vero. Non dico che le confuto e non posso dirlo a lei se effettivamente penso che siano molto parziali e frutto del fatto che si doveva velocizzare una qualche diagnosi per calmare la situazione che per lei era diventata intollerabile e poteva, ahinoi, spingerla a gesti sconsiderati, se non addirittura autolesivi o suicidari. Sa bene che il segreto professionale non si esplica soltanto se qualcuno mi viene a chiedere di un mio paziente e, se non ha un “mandato di perquisizione” della sua anima, io sono obbligato a non dirgli un bel niente, ma è altrettanto valido per quanto riguarda il rapporto medico-paziente. A grandi linee, posso dirle che idea mi son fatto di lei e quale sia la mia personale “diagnosi” ma con certezza né nero su bianco mai e poi mai gliela potrò confidare negli esatti termini nei quali si palesa.
– Quindi, lei preferisce l’ambiguità, la slealtà, la politica correttezza di una bugia bianca per non ferirmi o danneggiarmi nell’autostima oltremodo.
– Vedo che lei è in gamba. Sì, ha capito alla perfezione. Io non posso dirle nulla di lei, in termini diagnostici, se non operare con lei, in modo soft e indolore, un programma terapeutico che possa condurre lei verso la salvazione della sua anima malata e me stesso, permetta un po’ che mi vanti di questo pregio, a comprovare che anni e anni di studio mi son serviti davvero ad aiutare le persone e non sono stati anni buttati via di teorie inermi, inefficaci e cattedratiche. Se lei si salverà, se ritroverà la sua perduta vita e la sua traviata via riagguantata, il merito sarà anche mio. Non le dimentichi mai. Questo è di primaria, basilare importanza.
Ora però mi permetta di esserle ancora più sincero e mi perdoni se sarò troppo duro con lei.
– Cioè?
– Cioè, vede, lei è una persona molto colta, ha mille conoscenze, curiosa, sveglia, forte e coraggiosa. Tutte qualità che mi sento di attribuirle perché se le merita e rispecchiano la verità. Mentirei se le dicessi che è uno stupido. Molti miei pazienti, ahimè, lo sono, e non hanno assolutamente coscienza dei loro limiti né si rendono conto delle distorte imbecillaggini che mi vengono a riferire. Altresì, devo dirle che la sua vita non mi piace affatto. E la reputo molto triste. Tristissima, patetica, orrenda, penosa. Allora, o si dà una mossa immediatamente per vivere come uno della sua età, costi quel che costi, e dunque divertirsi, prendere la vita con più filosofia, non dolersi delle delusioni, tanto le prendiamo tutti, chi più chi meno, e lei in quanto uomo non ne sarà esente, oppure verrà visto pericolosamente come diverso e come una persona da emarginare. Non ha alternative, questa è la realtà. E poi non si lamenti se la gente la evita ed eviterà. Anche se nelle pulsioni la evirerà! Se l’è andata a cercare col suo astruso modo di fare insopportabile.
– Cioè, lei dice che vado benissimo così come sono ma vuole cambiarmi perché alla società non sto bene e dice allo stesso tempo che io stesso devo provvedere subito a cambiare. E in cosa dovrei cambiare?
– In tutto. E scopi di più.
– Ah, capisco. L’intero valore dell’anima di una persona si riduce al numero di scopate che uno fa.
– No, ci mancherebbe. Eppur sostanzialmente è così. È così e non ci piove. È il mondo di oggi. Florido, spensierato.
– Un po’ puttanesco e bugiardo. Carnale e materialista. Edonista ed epidermico.
– E quindi il problema dove sta? Il mondo ci vuole così e noi ce lo godiamo tutto così com’è fatto. Perché stare male per non godercelo tutto sin in fondo, tutto in culo? Si prenda questo mondo e se lo fotta di brutto.
Altrimenti saranno guai…
Sapete qual è l’atroce, spettrale verità? Che, nella sua fiera nudità espositiva, quello psichiatra non aveva tutti i torti. È triste, aberrante, persino malefico asserire ciò. Ma pensateci. A cosa ci serve, in questo mondo, essere furentemente creativi, pieni di fantasia, possedere una grande anima che vede la vita a trecentosessanta gradi se poi la vita stessa non siamo capaci di esperirla nel quotidiano, negl’inevitabili e potenti attriti col prossimo, se in qualche maniera, anche minimamente, non ci applichiamo per rendere le nostre conoscenze fruibili e alla portata di chiunque? Sì, si crea l’isolamento, semmai anche il delirio solipsistico, lo sganciamento troppo radicale ed eccessivo da ogni regola, da tutte le regole. E questo ingenera solitudine, alienazione e, se non sappiamo gestire le nostre emozioni, sconsolatezza ineludibile, amarezza inestinguibile, rassegnazione mortificante, ipocondria latente o peggio depressione acuta e incurabilmente febbricitante e fremente. Nascono così in noi sentimenti di totale sfiducia verso tutti.
Com’è bello, alto, nobile, coraggiosissimo tentare di vivere soltanto con la forza della nostra diversa unicità, bella, brutta, giusta o sbagliata che sia. Ma non verremo capiti. Soprattutto oggigiorno. E più ci affanneremo a fornire spiegazioni del nostro modo di essere e più verremo equivocati e guardati con sospetto e malevolenza. Ricattati e marchiati, stigmatizzati e allontanati.
E vi garantisco, sono il primo a rimarcare orgogliosamente ciò, che la solitudine è straordinaria. Sì! Ci permette di distanziarci dalle frivolezze più meschine e stolte, ci permette di leggere un libro meraviglioso, filtrandolo con la nostra mente non influenzata da niente e da nessuno, e dunque ci concede il dono e il privilegio di giovarcene, fregandocene solo di quello che noi pensiamo e amiamo di quel libro.
Ma a lungo andare, no, non dico che sia pericolosa, ma è sterile e anche la solitudine può essere un metronomico atteggiamento abitudinario verso la vita. Perché la solitudine protegge ed esalta il nostro autentico io ma può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Perché siamo uomini dotati appunto di anima.
E forse l’anima, qualche volta, va condivisa. Non troppo, intendetemi bene, ma un po’ sì.
E quello psichiatra, sebbene ammetta che abbia estremizzato con esagerata spietatezza, forse non voleva dire che io dovrei essere un egoista schifoso che vive unicamente per il suo esclusivo piacere, ma che il mondo odierno non ci offre altre soluzioni se non cedervi, prima o poi abdicarvi.
Ma è poi davvero vero ciò che ci dicono e cioè che il modo e il modello infrangibile e vero da perseguire sia questo, incontrovertibile, da prendere per l’unico vero possibile?
Non lo so, il dubbio mi attanaglia.
E ora, scusate, devo apparecchiare il tavolo per la cena e mangiare questi ottimi gamberetti in salsa agro-dolce.
Ah, che sono queste macchie sulla tovaglia?
di Stefano Falotico