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JOKER, Il Principe della notte: non ho età, non sono né vecchio né giovane, non sono infantile, non sono adolescente, sono solo registrato all’anagrafe, non sono mai nato e dunque non morirò


25 Aug

Ra Stargate

Come no?

Sì, dopo appurate analisi, dopo indagini approfondite, dopo psicanalisi da me stesso inflittemi, dopo immani scavi, oserei dire, archeologici per rinvenire il reperto storico perfino di me che finii in un reparto da Spider di David Cronenberg, asserisco con totale onestà di non avere età.

Non ho talloni d’Achille, non mi sbriciolo di fronte alla criptonite, se estrarrete il carbonio 14 dalla mia scatola cranica, non riuscirete a misurare la mia età. Se invece estrapolerete, donne, dalla patta dei pantaloni il mio velociraptor, potrete misurare invece le dimensioni di qualcosa di bestiale che forse possedettero soltanto gli uomini di Neanderthal.

Ah ah.

Io non ho età, sono oltre ogni tempo e, se un giorno schiatterò, non dovete elevare in mia memoria nessun tempio.

Poiché celebrereste soltanto il sarcofago vivente d’una mummia comunque più viva di voi che amaste l’omonimo film con Tom Cruise. Una pellicola mortifera che non divertirebbe neppure Tutankhamon reincarnato in quel cazzone del re Ra di Stargate, ovvero Jaye Davidson. Un uomo o pseudo-tale che è un ibrido fra il compianto cantante Prince, la deceduta Whitney Hosuton e Michael Jackson prima della sua morte, ovviamente, ma soprattutto prima che volesse diventare Kevin Costner di Guardia del corpo.

Ah ah.

Sì, che attore della minchia questo Davidson.

Al suo attivo ha solo due lungometraggi, ovvero il già succitato Stargate e La moglie del soldato, più un mezzo tv movie e un corto che avrà visto solo lui.

Comunque, a proposito de La moglie del soldato, vi racconto questa…

Qualche mese fa, fui contattato su Facebook da uno, forse una, che mi ripescò:

– Stefano, mi riconosci? Ci siamo visti al meeting di FilmTv.it del 2006. Ti ricordi di me?

– Mah, di mio non mi ricordo neanche cos’ho mangiato a pranzo. No, non mi vieni in mente. Chi sei?

– Ecco, ci vedemmo (usa anche il passato remoto, stavolta) solo di sfuggita. A differenza tua, io mi ricordo eccome di te. Sebbene avessimo scambiato solo due parole. Tu sei indimenticabile. Ora, comunque posso capirti. Ho cambiato sesso. Adesso non mi chiamo più Federico ma Federica. Si nota dalle foto?

– Mah, se lo dici tu… Fammi ben vedere. Dammi due minuti ché devo sfogliare un paio di tuoi album. Aspettami.

– Fai pure, tanto ti ho aspettato, anzi, t’aspettai lungamente per 13 anni, 5 min. in più non sono importanti.

– Che vuoi dire?

– Niente. Tu intanto sfoglia. Poi, dimmi.

– Ecco, a esserti sincero, sì, noto che sei mezza svestita in quasi tutte le tue foto. Ma entro i limiti del consentito dalla censura di Facebook. Però, ci sono un paio di tue foto in cui ho ravvisato una certa protuberanza…

Dunque, non sei donna a tutti gli effetti, diciamo.

– Effettivamente, no, hai ragione. Sono un trans. Vuoi il mio numero WhatsApp?

– Va bene. Passamelo…

– Ti mando un messaggio così mi aggiungi subito ai contatti. Ti è arrivato?

– Sì.

– Ottimo, instauriamo immediatamente un certo contatto. Si è capito che mi piaci?

– Sì, me l’hai già detto mille volte. Dunque, che vuoi?

– Mi manderesti una tua foto proibita? Dai, scattatela ora.

– Va bene.

 

Gli mandai la foto, quindi gli scrissi:

– Soddisfatto, ora?

– Ancora no. Dammi tempo. Mi sto toccando. Ci vuole un po’…

– Va bene, intanto vado a mangiarmi un gelato.

– Fai, fai…

 

Finito che ebbi di leccare tutto il Cucciolone, riprese la nostra conversazione del cazzo:

– Sei venuto? Sei a posto, adesso?

– Felicissimo. Comunque, tu hai leccato, sì, leccasti tutto il gelato. Ho avvertito una certa freddezza da parte tua, nevvero?

Cosa c’è che non va in me? Mi hai appena inviato una tua foto “sputtanabile”. Sai che ti dico? Non mi piaci più. Ora, sai che faccio? Piglio la tua foto del cazzo e la spargo in rete, così ti rovino.

– Ah sì. E che cazzo hai in mano se non l’immagine di un cazzo? C’è la mia faccia, forse?

– No. No, non c’è. Ma perché non ti piaccio? Cazzo!

– Se mi piacessi, avendomi tu dato il tuo numero WhatsApp, ti avrei già chiamato, non credi?

– Chiariamoci, stronzo. Io ti ho appena rifiutato! Vattene a fanculo!

 

Sì, che dire? Un uomo che sa davvero che cazzo voglia dalla vita. Ah ah.

Di mio, ho un viso da sfinge, un volto talmente espressivo che non ho bisogno di cambiare, appunto, espressione poiché soltanto con l’aggrottare impercettibile della mia fronte comunico molte più emozioni di Buster Keaton.

No, non sono Batman come lo fu Michael Keaton e non sono Arthur Fleck. Non sono nessuno, detta onestamente.

Però, nel 2003 scoprii di aver perso tutta la mia vita, facendo il clown.

I pagliacci fanno ridere la gente, infatti la gente mi chiamava solo per scarrozzarla avanti e indietro per tutta Bologna. Insomma, le persone ti sfruttano per opportunismo.

Quando le accompagni a un discopub e, mentre loro tracannano birra e gozzovigliano di lingue nei bagni caldi, raccattando qualche Catwoman, insomma, quando fanno i loro porci comodi, tu resti acquattato e soprattutto acquietato, già immensamente lontano dai giochi triviali e tribali di un’adolescenza tua mai avuta, mai venuta…

Forse solo svenuta o di sapida, saggia melanconia imbevuta. Sì, tutti si fanno delle grandi bevute e, alle tue (s)palle, delle matte risate, invero scontate e risapute.

Credendoti pazzo oppure, appunto, pensando che non capisci un cazzo.

Ciò che di me è inquietante, io stesso l’ammetto in maniera disarmante, è che io pensai e penso a tutt’oggi la stessa cosa di costoro. Mentitori, impostori, vili e malfattori. Puttanieri e sfruttatori.

Sì, penso che furono, sono e saranno irrimediabilmente, eternamente persone malate di mente. Incurabili e irrecuperabili. Come dico io, nemmeno inculabili. Poiché, come detto, a me non piacciono manco per il cazzo. Questi qui si fottono da soli, fidatevi.

Ah ah.

Poiché, a mio avviso, non capiscono la realtà. Non la capirono, giammai la comprenderanno. Debbo solo, più che compatirli, biasimarli e disprezzarli per la loro abietta miseria morale, accettarli e comprenderli.

Poveretti.

Perlomeno, la maggioranza. Vivono di automatismi, cioè in modo meccanico, ragionando d’istinto o, al massimo, ripeto… per mero opportunismo, per volubilità ed estemporanee emozioni che, come un raptus momentaneo indomabile, fanno le cos(c)e senza pen(s)are. Senza meditare sulle conseguenze dei loro impulsivi gesti partoriti unicamente dai circostanziati istanti, appunto, figli di quel fugace, pericoloso, instabile istinto lor abrasivo, lurido e belluino.

In quell’attimo circoscritto, non so se conciso o circonciso, i loro gesti s’iscrivono e adempiono all’animalità delle loro viscerali, esecrabili passioni oscene non propriamente finissime, però finalizzate ad allettare la primitiva fame d’orgasmi, sessuali ma anche no… più miserrimi.

Agiscono per avarizia, per indolenza, per noia o addirittura per pigrizia. Sì, può apparire contradditorio il termine pigrizia se associato all’azione. Alle loro masturbazioni.

Non lo è. Le azioni di molta gente sono animalesche, dettate inconsciamente, soprattutto incoscientemente, da un innato spirito di conservazione, da un barbarico, sebbene imborghesito e apparentemente civilizzato, meccanismo di sopravvivenza atavico di natura scimmiesca, proteso ad aderenza di una volontà primaria, dunque da primati, fatta di repentini palpiti, di capricciose voglie assai fuggevoli di palpate e amplessi che svaniscono nel labile, impercettibile battito di ciglia che a sua volta, in un baleno, dopo il tintinnarsi ruggente, s’eclissa nella monotonia di un’esistenza già fuggente, già di mano sfuggita.

Appunto, giammai ca(r)pita nella sua vera essenza profonda come una pepita nel deserto delle loro aridità da uomini e donne scipite.

Sì, è per questo che molti miei coetanei sono tutti depressi cronici. E si scolano soltanto insipide bibite.

Esperirono già troppa vita porcellesca e ora precocemente si son condannati al supplizio delle nostalgie passatiste, ubicandosi nella calma omeostatica di emozioni placatesi, di umori collocati nel posto fisso della routine lavorativa delle loro giornate illimitatamente, ripetitivamente uguali a sé stesse. Trascinandosi nell’apatia mascherata da ruffianeria ove fingono di prodigarsi socialmente, prostrandosi ai buonismi più moralistici, semplicemente per non guardare allo specchio le anime dei loro spettri ambulanti già patiti, già nell’anima partiti.

Io chiamerei per loro un’ambulanza. Sono tutti matti ma non sanno di esserlo.

Aspettano il sabato sera per fare baldoria, poi si svegliano per immusonirsi nelle domeniche pomeriggio tediose, rattristandosi, prima di prendere sonno poiché consapevoli che da lunedì mattina, cioè il giorno dopo, la solita loro vita lavorativa, assai ipocrita e meschina, inevitabilmente si avvicina.

Sono la prole di questi padri rincoglioniti che educarono appunto tali lor figli debosciati e (de)generati all’etica della dignità maschilista, se parliamo di figli del cazzo col cazzo, di femminismi scassa-minchia se ci riferiamo a queste figlie che fanno tanto le fighe ma rompono solo le palle.

Ah ah.

Di mio, vado a ficcarmi in bocca un altro gelato.

 

di Stefano Falotico

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