Sì, ne sono sempre più fermamente convinto, in quanto osservatore della realtà. Spesso, casco nella trappola dei ricatti. E delle gatte, ah, me le gratto fottutamente. Al che, com’è palese e insindacabile, incancellabile che sia, io vita normale non so cosa sia da circa venticinque anni quando, al tintinnare dei primi turbamenti adolescenziali, volutamente m’arricciai in una vita claustrale, paludare, oserei dire rupestre. Scalando le sommità dell’Everest della mia mente e conducendola al K2 di nuovi livelli percettivi aggrappati al cuore come le corde robuste di un intrepido scalatore. Voi, uomini pusillanimi, definireste questo mio atteggiamento, semplicisticamente, psichiatricamente, all’acqua di rose come schizofrenia, come inconsapevole distacco dalla realtà materialistica e terrena fatta di edonismi e culto della vanità personale, a favore di un’incomprensibile, almeno da parte vostra, visione della vita che reputate distorsiva. Mi spiace deludere le vostre più nefaste e anche rosee aspettative. Io non offro nessuna rosa. Sì, malgrado forzature ignobili, pressioni esecrabili, perfino storpiature e psicologiche torture, asserisco in gloria ed eloquio affatto sconnesso, bensì mica tanto sommesso, perfettamente allineato al mio cervello che di neuroni rimesto ma soprattutto, alla mia anima baricentrica malmessa senza sciocche messe impestate, io di stati strani tempesto, perpetuandomi nel mio tempo, nel mio sacro tempio, nelle mie bislacche tempie, consacrando uno status emozionale giustamente singhiozzante, paciosamente alterato e vivamente squinternato, che da ogni frivolezza meschina e ruffiana dell’amore, borghesemente inteso, io continuo ostinatamente a rifuggire. Via da me le messaline. Deluso da questo vostro patetico poltrire insulso di moine e, appunto, amorini. Poiché il vostro amore è un diminutivo della parola stessa di amore e io, a contatto, senza lenti e vostri balzani, ottici filtri, quotidianamente con le vostre emozionalità da me reputate coscientemente inaccettabili e banali, mi sminuisco e apparentemente pare che regredisca quando, invero, il mio sentire è un crescente, scolpente, scalpitante ingigantimento di un’anima oramai dipartitasi dal comune vivere e dallo stolto gioire dei dementi. Una vita mia modellatasi nella fluidità metafisica sempre più lontana dalle logiche corporee dei vostri cardiaci battiti senza vero, profondo calore. La mia esistenza è sempre più remota sebbene ancora non del tutto eremitica. Perché gradisco, all’albeggiare di questi giorni primaverili, essere perennemente, immutabilmente puerile. Uscire ai primi battiti di sole fioco, dardeggiante laconico, mettendo in moto la mia macchina a benzina e olio, dunque istradandomi, prima del fracasso e del casino dei vostri loschi traffici, dei vostri alti tacchi, dei vostri grassi tacchini e dei vostri frontali cranici sbullonati, in direzione d’un locale già aperto nel quale possa un caffè sorbirmi mestamente, appaiandolo alla mia anima così precocemente, innatamente lesta da esser stata subitaneamente non più desta, quindi presto destatasi e perciò allontanatasi da ogni scema estate e da ogni carnascialesca festa, in quanto, addormentatasi in un prematuro, secondo voi odiabile, per me invece amabile, scontro con una realtà da bestie non addomesticabili, da me considerata insanabile, ché preferisco la morigeratezza malinconica dei miei beati, lievi sospiri fragranti, molto friabili. Evviva il belato, lo spellato, il pelato e il prelato. Che boato! Son senza fiato. Sì, ieri mi ha telefonato un amico. Gli ho porto, sì, si può dire, un solidale e al contempo compassionevole ascolto. E lui mi ha riferito dei suoi drammi personali, delle sue lotte giuridiche con la sua malasanità mentale. Ascoltare, sì, potevo e posso fare solo quello. Alla mia seconda risposta, usatagli a mo’ di consigliera supposta da lui ritenuta supponente ed egoistica, mi ha al solito detto, screanzato, che devo crescere e rispettarlo in quanto più uomo di me. Mi son tolto sol il dente. Ardendolo di verità che lui testardamente vuole rifiutare con ostinatezza che mi fa ribrezzo! Allora perché mi ha telefonato? Son solito dire il vero. Per questo sono giustamente solo. Perché non posso dire a un amico che la sua vita senza sole non è una sola. Devo essergli sincero e spiattellargli che invero è la vita che s’è scelto in quanto scemo e mai sincero, è tutto un suo piagnisteo coi ceri, rimembrando quel che era senza più prospettiva di nuove ere, continuando a camminare nelle finte stabilità delle sue suole e preferendo l’ipocrisia da suora. E io non sono dio per potergliela cambiare. Se cercava consolazioni, è pieno di donne che vogliono solo bacetti e coccole. Ma quali ricotte, che bigotte. E tante idiozie con Nutella e vai che sei bello, dimmi che sono bella! Così per te belerò e tutto mi berrò. Sono un monaco d’abbazia?
Mah, di mio sono oggi un fantasma nel campanile, domani suono le campane, guardando il fienile della campagna e bagno il pane di pene da pover’uomo ricchissimo senza porcile, senza besciamelle, ché voi sapete cosa sono, senza ciambelle di buchi da stupidi fringuelli. No, non sono cambiato. Ed è una lezione potentissima, devastante. Inculante, incurabile!
La grandezza di chi non accetta amicizie e amori senz’amore, solo conditi repulsivamente di bone, puttanesche more, flagellandosi e sfracellandosi negli avidi compromessi dello svendersi e poi, avendo a mille la bile e a bestia, pensa che la vita sia solamente inevitabilmente questa. Senza stile, una vita che a lui fa svenire di piaceri e risatine, a me fa morire solo di disgusto per colpa della sua idiota frenesia figlia malata della stirpe della sua squallida borghesia.
Se questa è la mia estrema volontà, allora che così sia, senza più squallidi scherzetti di pessimo gusto omicida e induzioni al suicidio e alla vita suina. Io a voi non sono supino, sono un volpino, un ottimo lupino.
No, mi spiace, non ha funzionato. Io ho perso il pelo ma non il vizio di rompervi il cazzo e gli orifizi. Perché non amo quelli che delle anime diverse sono ricattatori assassini se non ti attieni ai loro schemi precettori e alle loro violenze da calunniatori e untori. Voi, falsi mentori, mi darete del malfattore, miei fattoni. Evviva il fattorino!
Parola del Signore, un uomo che ti sbatte il bastone in capa, mie capre e miei bestioni.
Evviva il mio fustone, ti do io la frustrata, ecco pigliati quell’altra frustata.
Lasciami adesso magnare la crostata, sennò da me piglierai altre palate, altro che patate, nel costato.
Sì, essere onesto, questo mi costò ma io non ci sto e te lo do.
Da cui… do re mi fa sol sol la si dà, nel vostro mondo di balli, galli, canti e hully–gully, io, non vi preoccupate, sto a galla, in quanto alligatore che morde i bulli.
E son pugni, altro che prugne e pugnette.
Poi scivolo nella melma e nelle sabbie mobili. Ma quasi quasi domani mi compro un altro antico mobile.
Rustico, australopiteco e di gusto.
di Stefano Falotico