Ecco, la recensione (in)aspettata della nuova opera di Cortés, Red Lights.
Curioso personaggio questo Rodrigo Cortés: produce, scrive, monta i suoi film e – dopo l’esercizio di stile di Buried – continua la sua indagine teorica sulla radice del fare cinema oggi. Red Lights sabota dall’interno il genere thriller paranormale e fa un bel discorso sullo statuto iconico di De Niro e della Weaver. Ma, alla lunga, il giovane regista spagnolo in preda a un’ansia declamatoria e assertiva spreca un po’ troppo il potenziale della sua storia
Curioso personaggio questo Rodrigo Cortés. Giovane regista spagnolo esponente di spicco di quella generazione cinefila che da qualche anno esporta il cinema iberico nel mondo, questa volta messo a servizio di una produzione internazionale con star di primo livello. Lui però continua a produrre, scrivere e montare i suoi film come un volenteroso artigiano e – dopo l’interessante Buried – continua anche la sua indagine teorica sulla radice del fare Cinema oggi e sulla mutata percezione dell’immagine in era digitale.
La prima ora di film (sicuramente la più riuscita) ribalta dall’interno un sottogenere codificato, quello dei thriller paranormali, assumendo come protagonisti degli investigatori/scienziati che si occupano di smascherare i “falsi” poteri dei sensitivi. L’equipe universitaria formata da Sigourney Weaver e Cillian Murphy sabota dall’interno il thriller e ne smaschera i trucchi guidandoci in una meticolosa indagine su come l’immagine (del Cinema) possa creare illusione ma anche pericolose derive. E s’intravede anche un notevole discorso sullo statuto iconico di De Niro (l’enorme e idolatrato attore anni ’70 che forse da dieci anni ci prende un po’ tutti in giro…) e della stessa Weaver (l’alien-a pragmatica e spudoratamente teorica che squaderna l’ordine prestabilito, un ruolo che aveva già ricoperto quest’anno in Quella casa nel bosco). Nella seconda ora di film, invece, il regista diventa troppo impegnato a dimostrarci la bontà della sua riflessione, sfornando addirittura una sequenza in cui la tracciabilità del pensiero di Silver è indagata su tre supporti: una macchina fotografica digitale, una analogica e una Polaroid, tanto per sottolineare la natura teorica del tutto…
Insomma, Red Lights rimane solo un buon esercizio di stile. Pensato da un giovane autore che dimostra un innegabile talento, ma ancora in preda a un’ansia declamatoria e assertiva che nel finale spreca un po’ troppo il potenziale di questa storia. Affrettandosi a “chiudere” tutti i quesiti posti e tutte le derive di genere intraprese. Nonostante ciò rimane un film che sfugge sempre la banalità, che ritaglia finalmente a De Niro un personaggio nel “suo” tempo e che tutto sommato consegna allo spettatore un ruolo attivo e partecipe.
by Pietro Masciullo