Posts Tagged ‘Mangiafuoco’

Pinocchio di Garrone è brutto. D’altronde, le favole di Collodi sono finite, la gente deve portare la macchina al collaudo


22 Dec

pinocchio disney

Ebbene sì. Roberto Benigni interpretò e diresse Pinocchio nella trasposizione peggiore di tutti i tempi anche se tenuta in auge da Enrico Ghezzi poiché, in via della sua impresentabilità assoluta, a Ghezzi parve una pellicola super-pasticciata e poco dalla Critica seria benvoluta, dunque da bastian contrario la esaltò con far fanatico. Forse falotico…

Così come il tanto bistrattato Michael Bay, spauracchio dell’intellighenzia contemporanea, Ghezzi magnificò, Definendolo un autore incontrovertibile, autore peraltro, a suo dire, di una delle massime vette della Settima Arte planetaria, ovvero Armageddon.

Invece, pare proprio che stavolta il celebrato Garrone, per fare il furbone, cioè realizzando un film dai facili incassi per grandi e piccini, adatto anche ai più tromboni, scendendo di conseguenza ai meno artistici compromessi poco nobili, abbia sfornato un film col quale, sbugiardando tutta la sua carriera, gli sia già cresciuto il naso più di Leslie Nielsen ne L’aereo più pazzo del mondo. Che marpione questo Garrone!

Da tempo immemorabile, da Walt Disney, con la sua celeberrima versione cartoonistica, sin al mai realizzato colossal che doveva essere firmato dal famigerato Francis Ford Coppola con Al Pacino e De Niro nei panni, non so se rispettivamente, del Gatto e la Volpe, la favola di Collodi sul più famoso e popolare burattino di legno di sempre fu il sogno proibito di ogni cineasta. Anche del più auto-sputtanatosi senza ritegno.

Che fine ha fatto, inoltre, l’annunciato Pinocchio di Guillermo del Toro?

Posso asserire, senz’ombra di dubbio, senza ricusare la mia innata patologia di mentitore invero più sincero di tanti fals(ar)i, che chi paragona C’era una volta a… Hollywood a Joker, affermando che il film di Tarantino sia Arte pura mentre la pellicola di Phillips solamente una furbata ipocrita, merita che la Fata Turchina, dinanzi ai suoi occhi traviati e distorti dalla poetica noiosa e goliardicamente fastidiosa di Quentin, vale a dire l’inattendibilità fattasi pop oramai balzano e scombiccherato, un uomo adesso sgarrupato e cinematograficamente, a mio avviso, rovinato dopo averci propinato questa pazzesca boiata, un uomo che non va in alcun modo assolto, tantomeno non lapidato e ingiuriato, angariato, offeso e severamente sgambettato, bensì inchiappettato e non perdonato, ecco… dicevo, chi sostiene che chi consideri Joker superiore all’ultima balla spaziale di Tarantino vada subito fermato e internato, da casa prelevato dai carabinieri e quanto prima in un centro rigidamente psichiatrico severamente e inflessibilmente deportato, credo che abbia capito poco non solo del Cinema, bensì della vita in generale. Poiché vuole arbitrariamente legiferare da caporale, attraverso la sua nazifascista eugenetica pseudo-cinefila, sulla frase più conosciuta persino di Pinocchio stesso. Ovvero:

de gustibus non disputandum est.

Dicevo anche che merita che la Fata Turchina, dirimpetto a lui, si accoppi con Mangiafuoco.

Bruciandogli, così facendo(selo), ogni purezza residua della sua sporca cosci(enz)a che a ogni uomo vero e a ogni donna sana fa ribrezzo.

Le donne sante a me comunque non piacciono. Le schifo, ah ah. Non me la raccontano giusta e io avrei da raccontarvene.

Ieri pomeriggio, su Facebook, la sparai grossa e si scatenò, in merito a tale mia bomba, una faida di livello mondiale tra appassionati, veri o sedicenti, anche fra ottantenni misti a precoci, esaltati sedicenni. Un professore cattedratico, nel suo ambiente universitario molto altolocato in cui da ogni suo studente e collega viene, non so se (im)meritatamente, stimato, non so neppure se sopravvalutato o soltanto leccato, attaccò verbalmente un comunale impiegato, colpevole a suo dire di essere un ignorante cinematografico poiché quest’ultimo, alla pari del sottoscritto, definì il film di Tarantino una presa per il culo all’intelligenza anche dei più apparentemente cretini, sprovveduti e da questa iniqua società emarginati. La gente si accapigliò, sbraitò, inusitatamente si offese e le persone, reciprocamente, s’angariarono, sparandosi insulti dei più miserevoli e disparati fra borghesi contro paninari, fighi contro sfigati, fighette con la Calzedonia contro figone della madonna ma in realtà mezze calzette.

Ma, nel frattempo, io gustai la lotta senz’esclusione di colpi fra il pubblico accalorato e scalmanato, leggendo ogni ingiuria vomitata dalle persone che, a tale riguardo, la pensarono diversamente.

Quindi, mentre loro si affannarono a voler avere ragione a tutti i costi, io risi da giullare. Mandando ogni inutile contenzioso a cagare.

Poiché io so la verità inconfutabile. Però da tutti celata, quindi non detta e, in maniera capziosa, inconfessata. Che fessi!

Chi è un occidentale e legge filosofia orientale, eh già, non è un uomo elevato, bensì un cornuto mai visto che fotte la sua anima dalle gambe corte che guarda con gli occhi di Pinocchio quelle con le cosce chilometriche, cioè le gnocche. Poiché di giorno s’asservisce, da mon(a)co, al sistema bugiardo e sconcio, davanti agli amici e alle donne si pone come uomo di risma ma, di notte, non prendendo sonno a causa del suo complesso di colpa e del suo insanabile conflitto psicologico, appunto, legge sulla tazza del cesso Mishima per credersi, in cuor suo, un ascetico della minchia.

Ne vidi tanti/e.

Donne che ogni domenica mattina vanno a messa e poi mangiano carne di maiale con solo il Venerdì Santo, bensì tutto l’anno. Facendosi amare nell’ano dai maiali, cioè quelli con più soldi e col migliore divano.

Vidi uomini dichiararsi poveri, dunque senza un soldo bucato, senza un Euro nel salvadanaio, che piansero miseria per avere un rapporto sessuale gratis con una che la dà via a dieci cent.

No, in Italia non c’è nulla.

La gente continuerà a parlare di rivoluzioni e guerre civili per tirarsela da comunisti amanti di Marx quando poi comprerà nuovamente il nuovo calendario di Max.

I cosiddetti intellettuali, quando vengono colti (ma colti di che?) in flagrante, ti schiaffano la letteraria citazione da eruditi, latinisti e letterati per tenerti buono e tranquillo, suggestionandoti col potere della finta istruzione ch’è in verità soltanto arida corruzione, volgare (pres)unzione e saccente miseria tronfia.

Meritano ogni sacrosanta punizione!

Ché si pavoneggiano del loro sterile scibile senza umanità ma si ammaliano, anzi pateticamente ammantano e nascondono dietro la maschera perbenistica e moralistica, (d)istruttiva e induttiva d’un pretestuoso stile senza pedagogico, autentico, dolce vivere semplicemente logico.

E questo è quanto.

Cosa faccio io nella vita? Fra i volponi io sgattaiolo. Qualche volta pure abbaio, altre volte abbacino.

Datemi dei bacini e buonanotte a tutti, miei porcellini.

Per una società libera e democratica, senza partito preso, propugno solo dei pugni in faccia a chi vuole spaccarti il naso. Anche delle pugnette, a mo’ di sfottò, alle mezze seghe.

 

di Stefano Falotico

 

benigni pinocchio garrone

Il nome della rosa e Il nome del rosso, il grande Aristotele(s)


24 Mar

IMG_20170906_225849 C_4_articolo_2161232_upiFoto1F Urs-Althaus

Sì, secondo la versione cinematografica del libro di Umberto Eco, il nome della rosa altri non è che il nome della fanciulla ignota.

Questa è la versione data dagli sceneggiatori dell’opera di Annaud con Sean Connery.

Eco invece aveva scelto questo titolo, assolutamente metaforico, per rimandare a citazioni medioevali di varia natura, non solo femminile.

Ebbene, stavo pensando di scrivere un bestseller intitolato Il nome del rosso. Storia di scaramanzie, di sceme zie, di nonnetti cattivi.

Sì, molte oscurantistiche superstizioni popolari hanno sempre sostenuto che uomini come il sottoscritto, ovvero coi capelli rossicci, fossero persone altamente instabili caratterialmente. Facili alla pazzia, indotte geneticamente di DNA dal bulbo color vermiglio, appunto, a cader vittima di strani, indecifrabili squilibri mentali.

E a quei tempi, tempi ove regnavano i sovrani assolutisti ma soprattutto imperava l’ignoranza più brada, a quest’assurda diceria molta gente, bigotta e sprovveduta, dava stupida udienza, come si suol dire.

Non solo le donne nubili venivano arse vive perché accusate di stregoneria. Anche gli uomini che, per questioni ereditarie di livello cromosomico, non si attenevano ai canoni, diciamo, ariani, venivano bruciati nei forni crematori. No, non quelli di Auschwitz, quelli del pregiudizio e del chiacchiericcio discriminatorio partorito dalla malattia mentale delle persone deficienti.

Sì, se fossi nato in quell’era cupissima e folle, avrebbero bussato a casa mia dei gendarmi con tanto di tonache nere, mi avrebbero imbavagliato e, ammanettandomi dopo sevizie e torture fisiche di proporzioni inaudite, mi avrebbero trascinato al cospetto di un inquisitore fuori di testa.

Che, dall’alto della sua maligna idiozia, ah, il Maligno in confronto a costui è un angelo buonissimo, mi avrebbe prescritto prima la gattabuia, una cella d’isolamento senza pane e acqua. Dunque, dopo avermi disidratato e lasciato stremante solo come un povero cristo a cui sol urla e gemiti spaventosi mi sarebbero rimasti per difendermi dall’oscena persecuzione, mi avrebbe condotto sulla cima di una collina arida. Inaridendomi del tutto, ah ah.

Impalandomi fra rossissime fiamme voraci che avrebbero essiccato ogni altro residuo grido di rabbia focosa.

Purtroppo, no, nessuno ancora fortunatamente mi ha esposto, bruciante, ah ah, al pubblico ludibrio della gogna d’un popolo inferocito assalito dalla più purpurea cattiveria immonda. Ma molti si dovrebbero ugualmente vergognare.

Sì, molti episodi d’ignoranza parimenti, se non superiori a quella da me ivi descrittavi, nella mia vita mi son successi. Perché, nonostante siamo nel nuovo millennio, gli artisti, le menti vivamente fervide e gli spiriti liberi, ancora son guardati con malocchio, eh eh, da questi esorcisti probabilmente soltanto della loro diabolica demenza. E allora può succedere che, per emanciparsi da tutta una serie di madornali, orrendi equivoci scatenati da quest’orda di uomini bacchettoni, di donne, queste sì, stregonesche con le loro invidie a pelle, ah ah, col loro bigottismo figlio della loro cultura puritana da moraliste frustrate, per sconfiggere questi mangiapreti e Mangiafuoco così presuntuosi e untori della giovinezza altrui da lor lordata con malevolenza sfacciata, con farisea lor mente assai bacata, devi far capire a questi qua (a chi sennò?) che le tue sono scelte assennate, non da asino, e che non sei affatto un semi-eunuco monacale come Venanzio de Il nome della rosa. Libro che verte sulla liceità del riso e la commedia allegra di Aristotele che spesso veniva fraintesa e tradotta come schizofrenia pericolosa dalla derisione sciocca poc’anzi illustratavi.

Bensì, sei Aristoteles. Sì, il “nero” Urs Althaus de L’allenatore nel pallone.

FAGLI UN CULO così!, urlava Lino Banfi.

E il fuoriclasse, dribblando con classe immensa ogni trappola ricattatoria, ogni altro giochino di scarso fairplay, ogni altro sgambetto e, come si suol dire, bastone fra le ruote e bestioni stupidi, ora festeggia il trionfo.

Mentre gli stronzi son rimasti all’asciutto. E sanno solo continuare a offendere per difendersi dalla figura di merda. Davvero brutta.

Perché Aristoteles si è dimostrato più veloce anche con le palle, che campione di razza, sì, di razza, Aristotele era un geniale pensatore e ogni idiota, ogni tonto e ottuso l’ha preso finalmente in quel posto, ogni cosa gli si è ritorta contro ed è chiarissimo che era solamente un panzone dagli evidentissimi, lapalissiani torti e dalla bile stomachevole da vecchio arrogantone molto (s)porco.

E questo è tutto.

Ammazza, questi bastardi son stati proprio distrutti.

E se la sono andata a cercare.

Arriva sempre un punto ove devi dire basta ai bastardi e zittirli una volta per tutte. Anzi, uno alla volta.

 

di Stefano Falotico

Quand’ero matto, quand’ero De Niro, quand’ero m(ar)e, quand’ero e or non sono, sempre più insonne, pirandelliano, mi (s)maschero in mill’imbrunire del mio “bujo” eremitico d’eter(n)o…


07 Dec

Pirandellodi Stefano Falotico

Quand’ero un mucchio d’ossa, un vivente-troppo vissuto di lagrimante ossario in mai esser (s)lanciato, m’ottundeste lancinanti e, crud(el)i, mi “baciaste-bruciaste-basta(rdi)” in “soffici” carezze da lebbroso, “ebbrissimo” d’aspirata morte senz’aspirazioni, nel fango danzai da (ar)cigno cotto, m’aggrovigliai in (im)mutevoli, tanti miei mentali glossari in mezzo a un (fras)tuono chiassoso di tizi grassi e (mari)tozzi disossa(n)ti, cremosi e (s)cremanti, che cremini, cretino, dammi una cremina, anche una cret(in)a di Cremona, ai gorilla plagianti, preferisco la mia argilla, (em)arginatemi, che piaga, che pian(t)i, voi, i (ro)busti di tante false p(r)ose da al(i)ti senza la mia melanconica poesia, quand’ero euforico, rammaricato, abbattuto come le stagioni fredde più nordiche, più all’anima mia ancorata al no(do), quand’ero “storpio”, snodato, (im)mobile, stravaccato sul (di)vano a “tirarmela” senza le vostre vacche da vecchi, masturbato(rio), quando me ne sbattevo… in “tor(ni)o” senz’alcuna “attorno” e lo sc(r)oscio s’arrot(ol)ava in arro(s)tino stronzo, galleggiante fra un rischiar la gale(r)a dell’infinito naufragar in questo “mal” d’abitante di Marte imprigionato fra le (s)bar(r)e, mai nel doma(n)i quel che (non) potei “(s)pos(s)ato”, quand’arrancavo e m’arrangiavo, abbarbicavo e abbrustolivo nei pisolini del mio iellato pisellino impestato, scoreggiante di troppa pasta di “fagiuolo”, d’ieri “zampillante” come un (in)esistente illudermi di “erigerlo”, nev(v)e(ro), e (ri)sorgere sol(ar)e, invero crepuscolare d’agghiaccianti (tra)monti, miei (s)montati, me la “monto” da sol non LA/lo “DO(rmo), MI FA in un mio onesto (diapa)son, mi “vien” (nel) sonno, insomma, non siamo sommi, som(m)ari, io, rosato come un colorito mio sbiadito senza ros(s)e di ser(r)a e “brutto” tem(p)o non (di)spero ch’è meglio (non) esser un ribelle che (bela)re, questa è beltà di purezza, un “ero(e)”, nel mio eremo da mit(ic)o, quando (non) fui un De Niro, quando mi camuffavo, “buffo”, nel suo ne(r)o, quando nelle notti eteree, eternissime, in vol(t)o angelico, m’ergevo volante e v(i)olato dai già (in)consci viola(ti), in pallore treme(bo)ndo mi scurivo, ancor qui oscurato vi (ab)uso di (s)cure, mi trascuro, la mia bar(b)a è la noia sempiterna del mai sfoltirmi fra le vigliacche rasoiate della vi(t)a che (non) m’accetta, la(cri)ma del ma(rt)i(re), del mio mar(z)i(a)no, del mio matto da (s)legare, da voi (po)matato, fammi un pompino, son estinto(re) di (s)pompa(to), adombrato, ospedalizzato, da (ospi)zio, nel mio ludico, strafottente ozio, che schifo, oh, mio Dio, evviva Clint di Gran Torino…

Eastwood, nei boschi della città degli angeli o solo un mio (in)car(nat)o west da “cero” (in)viso una volta, che “C’era”, le vostre ce(r)n(it)e m’han beffato sotto i baffi, ancor non (s)vol(t)o, violo ove voi siete lì a strapazzarmi d’uova in quanto, non considerandomi uomo, farmi… (im)pazzi(re)… volete, combatter(vi), (non) vo(g)l(i)o! Volg(iam)o a Sud! Vongole, che siete voi, invece, a fanculo!

Domenica mattina, da mattino, cioè piccolo pazzo, esco presto, son ancor buio pest(at)o io stes(s)o, nella società non entro, mi penetrano, aspetto che un bar apra le serr(and)e di tal alba mia da cuore albino, da (dist)ratto in tal serraglio d’uomini puzzanti di (r)agli, tagliano d’a(si)ni, ancor, disancorato, mi brucia, non m’ardo d’arido nel lavorar come voi ché poi, nel sudar nei livori del “dur” non sognar di volare in quanto oberati da queste f(at)iche (di)sp(r)ezzanti, sempre a violarveli da indiavolati poco volanti, v’angosciate per un par de palle, di gambe(ri) e pantaloni sc(r)oscianti da (p)aia di “pol(l)i” che “la” guardan solo in notti in bianco mai (s)fumate di mio non (t)rombarvi appunt(it)o nel ner di ciglia eppur m’acciglio sbiancato, latte(o), mirando la vi(t)a lattea, malinconico per troppe letture e pochi (di)letti, te(tta) che cazzo vuoi, te lo inzuppo poco inglese in “pen” di Spagn(ol)a, fa(i) “venir” la “sciolta”, io, (s)consolato da donne diarreiche, acide come le lor anoressiche da insalata, perché pen(s)an di dimagrire sol, ma quale Sole, per (dis)piacere ad ignoranti (rab)bui(anti) che non conoscono il lessico delle vere cos(ci)e, bensì così fan tutte di bue… Si professan buo(n)i. Alle ginocchia…, questi da (g)nocche mie rotte, (e)ruttate. (Vulc)ano!

Io, masochistico, mastico, da mastino mi faccio da sol(id)o, senza “liquidi”, io e “lui”, mio amico di braccio destro, anche sinistro se me la sparo (s)tor(t)o su ambo i lati, sognandola avanti e (di)dietro, di-sper(m)a senza il “voi” che “liquidate”. Datemi (del) lei. Ancora iella. Ossobuco.

Son losco, liscio, tutto… lasci(v)o. Rosico, rustico son la tua ostia, mangiati le o(stri)che.

Fumo, la f(r)onte aggrotto, la spengo, spergiuro e bestemmio in mezzo a voi, le bestie che ve “la” (s)tirate.

(S)tiro, stizzito, strozzato, m’intirizzite, m’azzittite, zi(tell)e, che stizza, non son tozzo, non ce l’ho “tosto” qui, donn(ett)a da quacquaraquà, nella mia in bocc(ucci)a t’inumidisco al bagno di Ave Maria, crocifiss(at)o perché io vergine e tu Maddalena, ma dai, non te lo do, e a te “viene” però l’acquolina.

Sei una baccalà, non te lo beccherai “lì”.

Acquetta, sciacquette, fuoco, Mangiafoco, fuochino, fuocherello, facciamo un falò… (Pin)occhio! Cazzo!

M’avete incendiato, sommerso, eppur, immerso, son immenso, mangio alla mensa da (di)messo, non vado a messa(line), voi andate a troie e le portate in un trattoria d’asporto, con tanto di vostri (ri)porti…

Meglio il barbone…

Pizze in faccia da culo alla marinara, un po’ d’acciughe, io rimango all’asciutto, (t)remando, fa freddo e non forn(ic)o di mio “riso” in b(i)anc(hissim)o (di)strutto, rotto, fra questi vostri rutti da (s)truzzi, anatra all’arancia… meccanica, son ca(r)ne alla pizzaiola, donna lupa, donna “uvetta”, furbina, dunque volpona, nella fav(ol)a di fungo ti avveleno, che fig(liett)a di puttana, mi magna di strafogo, non la cago di Fuca, è “tonna” che mette le mie olive su (non) lievito di “sborra”, aborro le birre, vado a dormir nella bar(r)a da c(i)occo(lato), cammino nei ciottolati bagnati, lontanissimo da questo vostro an(n)o afoso ed è “tutto” uno (stra)colmo d’umidità, m’acchiocciolate in (for)mica di minchia. Qualcosa mi manca, forse (il) man(i)co. Meglio le mie cornee, comunque, alle cornute.

Stracciatemi, stracciatella!

Mangio.

(In)sorgerò?!

Basta col Sole. Meglio il mio mon(a)co da saio, da san(t)o, basta con le finte suore. Malati/o di men(te). Quante menate!

Rimasto al s(u)olo, vivo d’assioli, nel mio “asilo”, asini, non rabbonitemi, non son un buono, quanto buio vuoi, non son bono, bov(ar)i.

Non son fine perché non fin(t)o, donna, “fingi”.

Affinati e “affinatelo”. Ché ti sia una fig(li)a come te, “(r)affinata” soltanto per il cazzone. Meglio i miei calzini.

Di mio, rimango di capra, di “pelato”, son crapa tosta, coi testicoli senza testa, non mi fan la coda, son un codino, non datemi, conigli, neppur un con(s)iglio, sotto la panca, io crepo, meglio di te, con la panza piena, ché mi fai pena, di vita non crepi(ti), anche se di pene “le” vuoi “bene”, meglio Carmelo alle “mele”, Carmelo fa ma(ia)le.

Miei merli, son uomo “mero”, miei cammelli, fumiamoci una Camel.

Questa vita lor da miel(os)e non fa… per noi, uomini a-mari da Marlboro.

Siam carbonai, facciamoci una carbonara…

Collodi!

Mica con lode!

 

Genius-Pop

Just another WordPress site (il mio sito cinematograficamente geniale)