Ora, Greta Gerwig è indubbiamente una donna molto bella. Da alcuni, anzi da molti, eh sì, considerata un genio.
Chiariamoci molto bene. Geni, a tutt’oggi, ne esistono pochi. Può esistere al massimo il Genius-Pop, ovvero il sottoscritto. Poiché sa ironizzare con ardita sfacciataggine in merito alla sua imbattibile imbranataggine.
Personaggi invece come Greta Gerwig e suo marito, ovvero Noah Baumbach, si lasciano indifferenti, no, mi lasciano indifferente.
No, non le considero persone fetenti, tantomeno deficienti. Tutto si può dire di Greta e di Noah tranne che non siano molto colti e, con disinibita nonchalance, sfilino sui tappeti rossi, mano nella mano da perfetti innamorati d’una vita altoborghese da Woody Allen e Diane Keaton ante litteram. Per forza, Greta e Noah sono anche letterati, scrivono da sé le sceneggiature, i loro impianti drammaturgici nell’augurio, condiviso a quattro mani, per l’appunto, di allontanare le loro reciproche tristezze quotidiane. Svegliandosi il più tardi possibile prima che sopraggiunga la via del tramonto dei più irreversibili rimpianti.
Qui, invece non si ride né si piange, amici della notte. Qua oramai vivo troppo da voi distante. Oggi chiudendomi in una stanza, domani fantasticando e favoleggiando per schivare questa frivola joie de vivre che a voi dà la spinta per fingere di vivere.
Qui, nemmeno si sopravvive. Vi fu un tempo, infatti, nel quale vissi, poi non più vissi, combattei per vivere ancora, innamorandomi nuovamente della vita stessa mia perduta. Invero, non deperii, già fui perito. Chissà dove smarrito. Defunto e vivamente seppellito. Quindi, da un pezzo morto dentro e già altrove infinitamente sepolto, forse solo spellato. E fu solamente una folle resilienza, un’inutile guerra in trincea per recitare la parte di chi, felice e apparentemente contento, parve rinato e appagato. Baldanzoso, euforico e persino fastidioso per come, inscenando io un’allegrezza di facciata, fui superficialmente scambiato per un bugiardo conclamato, per uno sfacciato pagliaccio indignitoso e addirittura ignominioso. O forse solo per un farneticante gnomo ridicolo e troppo permaloso. Per un farabutto vergognoso dei più decerebrati e pericolosi. Nessuno mi chiamò per nome. Il mio nome è nessuno, ah ah.
Quante fantasie che si crea la gente, forse più delle mie che oramai, spiace dirlo ma è così, non ci sono più. Giammai vi saranno. Forse, le mie emozioni migliori, vergate su pagine bianche annerite dall’inchiostro di stilografiche digitali, giaceranno intonse e immortalate nei miei libri poco calligrafici ma stampati e redatti in ottima calligrafia e allineate a una fluida, lirica grammatica, ortografia e perfetta sintattica, forse solamente un po’ ridondanti e dunque privi/e di prosa sintetica.
Poiché se morirò davvero, fisicamente e clinicamente, almeno avrò lasciato a chi vorrà vivere, nascere e poi morire, forse soltanto rivivermi o immedesimarsi d’empatia, nella mia (non) vita, qualcosa della mia anima immortale e infinita. Comunque unica e indivisibile. Ché un tempo fu gioviale e giovane, poi si perse nel non essere amabile persino per me stesso già dimenticabile.
Greta è una donna dagli occhi magnetici, dalle forme sinuose, dalle gambe deliziose. Ma se la tira troppo, è tutta una recita, la sua, da donna che fa del finto femminismo un ipocrita, lezioso life style che vorrebbe darci a vedere di essere una femmina cazzuta o soltanto una graziosa donna eburnea, forse anche un po’ burina dietro questa scorza da raffinata principessina di sé molto sicura. Che dura. Ma quanto durerà questa sua messa in scena nella quale interpreta il ruolo della donna intellettualmente marmorea?
Sì, è alquanto insopportabile. Rimarrei incantato, dinanzi a lei, a spizzicare un boccone.
Le offrirei pure da bere, pagandole anche il dessert. Io e lei, se non fosse sposata a Noah, probabilmente faremmo anche all’amore. Lei, memore di The Humbling, avrebbe infatti dirimpetto a sé un teatrante della sua tragedia vivente. Si commuoverebbe, anzi, a compassione si (s)muoverebbe nei miei riguardi.
Porgendomi un dolcissimo sguardo.
Davanti alla sua venustà, no, alla vastità del mio disagio rimarrebbe, sì, impressionata. In poche parole, esterrefatta e allucinata, prendendo presto confidenza, soprattutto coscienza, che non sto fingendo per elemosinare sessuali passioni selvagge, mi bacerebbe con intensità immensa. Tentando lei stessa, pateticamente, di salvarmi dall’abisso del mio eterno scontento immane e la mia anima mangiante. Per avvinghiarmi angelicamente fra le sue gambe al fine, speranzoso, di allietare e sanare quell’insopprimibile male di vivere che, certamente, non guarisce se con una donna a letto guaisci.
Tanti anni fa, incontrai una donna. Lei mi disse che mi avrebbe salvato. Ne fu convinta e di ciò volle seduttivamente persuadermi. E fu felicissima quando io finsi di essere con lei, grandemente, altrettanto felice spropositatamente.
Non so se l’amai, se pensai di amarla o soltanto sposarla. Non ci sposammo ma comunque ci spossammo.
Lei di me non ne poté più e cercò uno davvero da sposare, forse un impotente messo bene economicamente. Ma, al di là di questo, almeno uno che l’avrebbe fatta ridere sterminatamente, mantenendola nel non fare niente. Stuzzicandola con la sua simpatia, stimolandola con le sue brillanti idee da uomo appartenente, per l’appunto, all’alta borghesia pensante. Non come me, penante più di Alighieri Dante.
La vita è riflessiva e diplomatica ma io ripudio invece ogni certezza, quindi anche ogni dubbio ponderante.
Io so che non avrebbe funzionato assolutamente. No, non a letto. Nella vita.
Sono troppo intelligente per non sapere che Scent of a Woman sia un film oratorio e retorico.
E forse, quando siamo di fronte a una tragedia imminente, è giusto dichiararla svergognatamente.
Come il mio amico. Che, esattamente, così scrisse.
Fu inizialmente e all’apparenza illuminante l’avvento dei social.
Perfino le persone più asociali, vomitando nei loro post il loro spogliatoio, potremmo dire, anzi per meglio dire i loro personali sfogatoi, s’illusero di allentare i loro dolori interiori, sperando di vincere e superare le loro cosiddette fragilità nell’effimera, per l’appunto illusoria sicumera e in una solidale socialità irreale.
Proiettarono nel virtuale le loro depressioni abissali, festeggiando addirittura per un Mi Piace in più in maniera plateale, sì, tanto plateale quanto invisibile. Per gli altri e per sé stessi. Stesi.
Ma, come avviene per tutte le illusioni, se in passato si ricevettero troppe delusioni, non v’è né vi sarà verso anche poetico che possa salvarti dall’ammettere che è finita. Non perché tu sia debole o altro. O perché non sai affrontare gli attriti del reale non umanamente allontanabile, semmai smorzandoli nel magnificare culture diverse, a noi occidentali lontane, issando in gloria pure il Cinema coreano.
Semplicemente perché, a differenza di Greta e Noah, non c’è più voglia di stare assieme a chicchessia.
E questa non è mancanza di cultura da piccola borghesia, non è mancanza di pelle e palle o mancanza d’altrui fiducia. Esistono persone che non se ne fanno nulla d’una misera scopata. Nemmeno d’una sonora ripassata. Neppure del loro bellissimo passato.
Ora, questo non basta e non c’è più.
Ci fu la nostalgia, poi fu tutta un’inascoltabile, anche per te stesso, fottuta litania.
Dunque, amen e così sia.
Stanotte, la morte da qui mi porterà via.
Spero che domani un altro giorno sia.
Non so se però in questa vita.
Non può servire a lenire il mare dentro e il male che provi a contatto con l’esterno, eh no, la psichiatria, anzi, è deleteria. E, col tempo, ogni malinconia che credetti fosse sparita, ritornando prepotentemente, ancora mi sta uccidendo lentamente.
La pietra tombale anche della stupenda, inviolabile, non sedabile pazzia è forse il ritratto più bello della stessa intoccabile bellezza.
In paradiso o all’inferno, oppure in una purgatoriale vi(t)a di mezzo, celebrerò il diabolico tormento del mio potentissimo avere tutta un’altra mente. Non adatta alle pose, nemmeno alle spose.
E qui ora io, per sempre, riposo.
di Stefano Falotico