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In My Letter To You, a mo’ di Bruce Springsteen, attraverso i trailer dei film con De Niro dell’ultima decade, vi racconto che (non) sono andato a letto presto


22 May

de niro truffa hollywood

Credo, in tutta sincerità, che l’ultimo album di Springsteen sia molto bello, mai sdolcinato, sempre ottimamente bilanciato fra sana retorica, un pizzico di rabbia da lui giammai persa, sebbene asciugata nella maturità che voi scambiate per patetica vecchiaia che v’induce a brutti, screanzati detti come ok, boomer…

Sì, credo che di Bruce ce ne sia soltanto uno, un po’ forse stagionato ma per niente obsoleto od annacquato.

Bruce Willis gira oramai, infatti, soltanto filmacci dalle trame più prevedibili dei film, per modo di dire, col pornoattore Bruce Venture.

Quest’ultimo non può rivaleggiare con me. Per purissimo pudore e contegno morale, non desidero sfidarlo nelle sue performance ma credo che, da un eventuale confronto nudo e crudo, ne uscirebbe spompato e assai ridimensionato.

Insomma, duri come Mark Wahlberg di Boogie Nights mi fanno un baffo da Tom Selleck d’annata, ah ah.

Ecco, sino a un paio di anni fa, mi misi alla ricerca di Jack Kevorkian, detto Il Dottor Morte, interpretato da Al Pacino in un omonimo (almeno nel sottotitolo italiano) biopic per la HBO.

Ma non si doveva parlare di De Niro?

Sì, scusate. Vedete, a volte il mio cervello abbisognerebbe di essere spento. Staccate la spina, per piacere, ah ah.

Detto ciò, non sono però la protagonista della canzone Janey Needs A Shooter del Boss e neppure Hilary Swank del finale di Million Dollar Baby.

Debbo riconoscere che son un vecchietto niente male, eh già, Walt Kowalski di Gran Torino se la suderebbe non poco contro di me. Ah ah.

Spesso, sapete, ho l’impressione di essere invece il ragazzo che, alla fine del succitato capolavoro ineguagliabile di Clint, malgrado ogni tragedia e tante amarezze occorse a lui e specialmente a sua sorella, memore dei film di Sergio Leone e soprattutto della battuta pronunciata da Lee Van Cleef in Per qualche dollaro in più, ecco, parafrasandolo/a… sei diventato ricco e te lo sei meritato.

Ribaltata, diciamo(la) più francamente: sei diventato povero e non te lo sei meritato, ah ah.

Ecco, nel periodo soprastante, ho volutamente tentennato in merito al perfetto italiano ma, nel periodo riguardante i miei ultimi dieci anni di vita, devo confessarvi che fui estremamente sicuro che mi sarei suicidato. Vedete come passo, con grande facilità, dal passato prossimo a quello remoto? Sono un verbo imperfetto e in me incarnato?

Procediamo con un calmante? No, con tutta calma.

Che io mi ricordi, ho sempre voluto fare il gangster come Henry Hill/Ray Liotta di Quei bravi ragazzi?

No, non volevo essere pazzo ma, a causa di bullismi esasperanti, mi svegliai un bel giorno, insomma, bel giorno un ca… o, eh eh, in una suite del Baglioni di Bologna, no, su uno scassato letto di ospedale.

In quel periodo in cui fui attorniato da infermieri ignoranti e da discutibili medici col camice bianco ma con l’anima poco immacolata, per compensare i miei psicologici scompensi, rividi in continuazione il trailer di Sfida senza regole. Dal primo sguardo rivolto a esso, compresi subito che non mi trovavo di fronte a Heat di Michael Mann. Ma la speranza, come si suol dire, è per l’appunto l’ultima a morire.

A meno che non vedi il suddetto film pronto e impacchettato, malamente doppiato e distribuito, in una multisala dalle parti di Faenza.

Al che, comprendi che tanta febbricitante e delirante (è il caso di dirlo) attesa, potevi risparmiartela. Risparmiando, peraltro, anche gli 8 Euro del biglietto strappato da una maschera più brutta di quella indossata da Robert Pattinson in The Batman di Matt Reeves.

A voi pare figa come una delle attrici con cui lavora Bruce Venture? No, a me pare rifatta. Insomma, è poi la stessa cosa, no? Ah ah. Sì, è tutta plastificata.

Comunque, sebbene Righteous Kill sia un film più che mediocre, lo riguardai altre mille volte per convincermi che fosse avvenente come Carla Gugino.

Be’, non si può dire che sia attraente come Carla in Sin City e in Jet.

Però, Sfida senza regole è carino, tutto sommato, come Jessica/Trilby Glover.

La Glover non è sexy come Jessica Alba di Machete, dai!

Inoltre, dalla mia situazione d’impasse, me la cavai come Ed Norton di Stone?

No, fu un periodo di ménage à trois non fra De Niro, Milla Jovovich e Norton stesso. Bensì fra me, la mia immagine allo specchio e un rendervous col prossimo film con De Niro.

Che vita, eh? Ah ah.

Per superare la mia depressione abissale, dovevo assolutamente diventare Bradley Cooper del secondo tempo di Limitless. Comunque, non mi drogai.

Potei solamente duellare virtualmente col mio acerrimo nemico e rivale storico à la Stallone de Il grande Match per illudermi di essere De Niro palestrato, non rovinato, di Toro scatenato.

Comunque, mi assunsero come stagista inaspettato per dare lezioni di vita non ad Anne Hathaway di The Intern (magari, eh), bensì a Jennifer Lawrence di Joy.

Che culo!

No, a parte gli scherzi, per molto tempo pensai di essere un ciarlatano come De Niro di Red Lights, invece, con mio sommo stupore, scoprii davvero di essere un fenomeno paranormale a cui piace Elizabeth Olsen.

Volete, per questo, rendermi cieco? Ah ah.

Sì, lo so, non sono Travis Bickle di Taxi Driver & Rupert Pupkin di Re per una notte, non sono né Bill Murray né Joker. Neanche Franklin Murray.

Forse sono però davvero il protagonista di The Comedian.

Sì, la mia lei è come Leslie Mann.

Quindi, andate a dire a John Travolta di Killing Season che la guerra è finita e non deve portarmi rancore se lui non capisce Il lato positivo di David O. Russell e io dunque severamente lo sgrido.

Presto, uscirò col libro Bologna Hard Boiled & l’amore ai tempi del Covid.

Secondo il mio editor, ho detto editor e non tutor, questo mio libro è qualcosa d’immane. Invero, per far sì che non mi montassi la testa, ho detto testa, mi disse “solo” che è l’opera di un genio.

Sì, credo che sia un grande libro. Io sono però realista… venderà dieci copie.  Dunque, se qualcuno non mi reggerà il gioco, cioè la mia lei o un vero amico, vi scriverò una lettera d’addio…

 

di Stefano Falotico

Com’ è bello viver da soli, con il Calcio


04 Apr

 

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Le mie giornate, da molta gente ignorante reputate asfittiche, si cibano di aria zen. Ove, soffice, nell’ermetica lucentezza di me sempre “sbiadito” e sbadato, mi disfo del pen(s)ar comune, così ingombrante e secondo me foriero, cari forestieri, di stress. Meglio l’aria della foresta che mi richiama quando, allo scoccar dell’alba croccante, “digrigno” gli occhi nell’assaporarne la vegetazione, con gusto della fauna mia da animale lontano da queste metropoli schiaccianti, col lor (a)mar di obblighi, ove tutti si “responsabilizzano” dietro scrivani(e) di lavoretti “incappucciati” nell’orinare, no, nell’amministrazione ordinaria. Il cappuccino, il capufficio, uff uffa. Meglio i puffi a queste muffe. Magnatevi un muffin e leccatevi i baffi. Così, dopo queste giornate “dure”, l’uomo “normale” si appiccica alla televisione e si sorbisce Montalbano che starnazza in idioma idiota calabro-siculo mentre io mangio un altro colibrì, non pensando a questi drammi piccolo borghesi ove la puttanella rivendica il tradimento di un certo Mario e Mario l’ammazzò con una calibro per lo “specialista” calibrato di “onore” meridionale. Io conosco l’odore del temp(i)o nelle mie tempie e immagino (di) templari scorrazzanti nello scoreggiar pi(n)o. Tra spade di Excalibur e fornicazioni che una volta erano libere dal divorzio, sì, quelle “zie” oziavano con gli orsi maschi che se l’ingroppavano a tutta birra, masticando l’aroma del sesso verace, remoto dall’orpello borghesuccio dell’amore a “tutte le costole”. Vedo ragazzi disperati che, per far contente le professoresse, imparano a menadito lezioni di troia, no, di Storia, eppur non provano la rabbia pasoliniana di quell’Ulisse e non leggono Joyce. Comunque guardano O. Russell di Joy ed è una bona Lawrence, una buona cos(ci)a. E poi i calci da dare! In una “iurnata e Sol”. Mentre Ventura studia la Nazionale e quella panza si suda. Non pensando ai medici e agli avvocati, ma ficcandosi in bocca un altro Buffon.

 

di Stefano Falotico01104606 joy-DF-04076_R2_rgb

Joy, finalmente recensito da spietati.it


24 Feb

Recensioni di GIOIA.

Joy recensione glispietati

De Niro, siamo fieri di te, lo dobbiamo ammettere, e non poco


02 Feb

De Niro Joy

Joy recensione de Il Fatto Quotidiano


30 Jan

Questo è il FATTO!

Joy Il Fatto Quotidiano

 

Joy Davide TurriniSe c’è qualcuno, e qualcosa, che David O. Russell sa filmare è lo sguardo, le movenze, i tre quarti del corpo (dal primo piano al piano americano, non oltre), di Jennifer Lawrence. E se c’è un controcampo che gli riesce in subordine altrettanto bene è l’espressione catatonica, sorpresa, stupita di Bradley Cooper che osserva lei, e poi lei lui. Joy, infatti, sgomberato il campo dalle comparse, dai soggetti brulicanti sullo sfondo (Robert De Niro e Isabella Rossellini compresi), è questa linea direttrice che struttura il senso dell’intera opera. La self-made-woman (con fatica titanica) e l’affascinante mogul depositario del segreto del successo delle vendite televisive, l’ordinario che si sposa con lo straordinario, il cosiddetto sogno americano strabordante di citazioni sul cinema (il produttore di Via col Vento David O. Selznick che sposa Jennifer Jones) è la cifra filosofica tra il malinconico e l’ironico che Russell applica al caso di Joy Mangano, colei che nei primi anni novanta inventò il Miracle Mop, lo scopettone di plastica con lunghe spugne in cotone usabile senza doversi bagnare le mani per strizzarlo, e lo vendette sul canale QVC in solitaria vista l’ignoranza rispetto all’oggetto dei conduttori più esperti della rete tv.

La protagonista disegna, taglia, smartella, sgobba, lavora manualmente, sorbisce questo parentado invadente, sinistro e simpatico, sempre con il visino pulito della Lawrence, idealizzato nella sua dolce testardaggine, mai agiografico rispetto alla mitologia dell’uomo, pardon donna, qualunque che dall’anonimato si fa grande imprenditrice, anzi. David O. Russell inventa un espediente scenografico, o forse lo recupera da qualche racconto sugli studi tv dell’epoca, anche se oggi ci sono boss delle tv locali che lo spacciano come invenzione loro, che è quello del palco girevole circolare, magari suddiviso in due, tre o quattro set, sliding door pronto per roteare lentamente e mettere in scena un nuovo capitolo della quotidianità in cui si concretizza, grazie al proprio ingegno e alla propria determinazione, il successo personale ed economico.

Dall’altro lato, l’umanità che non reagisce che non osa che non ci prova mai, la generazione più anzianotta che dalla tv è rimasto infatuato dalla sua ipnotica e vacua finzione, la madre di Joy, anestetizzata dalle serie modello Falcon Crest, che rischia di diventare ascissa ed ordinata esistenziale anche per Joy. David O. Russell può così modellare la sua Giovanna d’Arco, vituperata e lesa nell’intimo, fregata e presa in giro dal prossimo, amata ma tanto sfiduciata dalla pletora di ex mariti, sorelle, genitori e nonne che le gravitano attorno, in un ritratto al femminile che rinuncia alla beatitudine astratta della purezza dell’anima, ma che a quella stessa purezza etica si rifà in chiave più materiale come fuga da un destino passivo e conformista. Un futuro conquistato con i denti e con la foga, da una donna, in un mondo di squali maschi. Nella splendida sequenza in cui Joy, dall’altra parte della barricata, modificata la sua classe socio-economica d’appartenenza, dà l’ok alla fanciulla con marito e neonato venuta a New York fin dal Sud per mostrarle il prototipo della spazzola pulisci vestiti da viaggio (quella rossa e bianca che abbiamo avuto tutti in casa o valigia), ecco che il disegno circolare del film si compie.

A differenza dell’ipertrofico, spaccone e dispersivo racconto di American Hustle, lo script di Russell ritrova la compattezza omogenea de Il lato positivo. La regia è dinamica, esplorativa, prossima ai corpi in scena, con la cinecamera in adorazione mai voyeuristica della Lawrence (bellissima donna di cui non vediamo mai dettagli fisici ma ne intuiamo il fascino proprio come un film anni cinquanta), e in sala montaggio si lavora di forbici per tagliare e ricomporre materiale tra una sequenza e l’altra in modo che il discorso non si perda mai in momenti di vuoto o noia. Infine come non amare questa miscela di brani che accompagnano simbioticamente la protagonista: The sidewinder del trombettista Lee Morgan, l’Elvis di A little less conversation, il tema di Vertigo di Bernard Herrmann, come i brani della serie tv di The good wife. Qui Russell ritrova la dimensione del patchwork senza capo né coda che l’ha caratterizzato fino ad oggi: passato e presente della visione (americana) tra cinema e tv, omaggio sensoriale ma mai citazione, impressione epidermica e mai devozione autoriale. Joy è un film che fila che è un piacere.

Joy, recensione da FareFilm


28 Jan

Hanno ragione loro!Joy FareFilm

Cinematographe, a differenza di molti criticuzzi-(im)piegati, plaude Joy, e io, con gioia, la copio-incollo e forse con la Lawrence copulo


27 Jan

Cinematographe che dice? Dice il vero.

Joy, ultima fatica registica di David O. Russell, è una favola moderna alla quale si sovrappone con decoro e maestria la lastra decadente e antropologicamente rappresentativa della soap opera. La pellicola in bianco e nero trasmessa attraverso lo schermo di un vecchio televisore bacia ripetutamente i colori sgargianti del film, creando un parallelismo inizialmente confuso e inquietante, che mette al centro la natura e la volontà delle donne, anche se fosse più opportuno dire della donna, l’unica diva attorno alla quale ruota la pellicola: Jennifer Lawrence, perfettamente calatasi nei panni di una donna matura, indubbiamente sfigata ma fortemente intenzionata a ribaltare la sua vita.

Come in American Hustle e Il lato positivo, anche in Joy Russell fa dei rapporti famigliari il perno centrale attorno al quale si srotola l’azione. Un mucchio di parenti stravaganti che convive ad alternanza sotto lo stesso tetto, scambiandosi cattiverie, frustrazioni e gioie; una famiglia allargata, in cui la confusione regna sovrana per riversarsi esclusivamente sulle spalle della protagonista.

Joy: la Cenerentola contemporanea alla quale non serve un principe, ma un mocio che si strizza da solo!

La vita di Joy viene raccontata dall’amorevole voce della nonna Mimi (Diane Ladd), la quale ci spiega con parole semplici ma efficaci l’excursus della nipote che, proprio come una Cenerentola contemporanea, ha una sorellastra (Peggy, interpretata da Elisabeth Röhm) che non fa altro che metterle i bastoni tra le ruote, una madre che passa il tempo appollaiata sul letto a vedere la tv e un padre amorevole quanto egoista, Rudy, interpretato da un fantastico Robert De Niro, che in questa pellicola veste appieno i panni dello sciupa femmine.
Nei ricordi sbiaditi quanto martellanti dell’infanzia Peggy sogna un uomo, mentre Joy sogna di inventare, di affermarsi nel mondo esclusivamente con la bellezza del suo ingegno. Ce la farà?

Si innescano frettolosamente i rami arcuati della drammaticità e dell’infelicità, quella che attraversa la vita di chiunque, ma che in questa pellicola permea con complicazione l’intera trama: ogni scelta diventa difficile e asfissiante, ogni tentativo di emergere sembra inutile, soprattutto se i tuoi cari si appendono all’orlo della gonna come pesi di piombo per evitarti di spiccare il volo.
Ma Joy è un osso duro, chiede senza esitazione, si fa strada in un mondo fatto di uomini – sintetizzati tutti nel volto di Bradley Cooper alias Neil Walker – per lanciare sul mercato la sua invenzione: il Miracle Mop, ossia il mocio.
E non sarà per niente facile convincere Trudy (Isabella Rossellini), la nuova compagna del padre, a investire sul suo progetto, a convincere chi le sta accanto che può farcela. Ma gli unici che la sostengono sono l’ex marito e la sua migliore amica. Suvvia, siamo davvero sicuri che una donna riesca nell’impresa? Tolti i fronzoli della commedia a tratti drammatica Joy Mangano, la casalinga newyorkese laureata in economia aziendale col pallino per le invenzioni (alla quale è ispirato il film), ce l’ha fatta davvero e dopo il mocio ha inventato tante altre cose, come “le stampelle ricoperte di velluto per armadi più ordinati”; ha lanciato un nuovo modo di imporsi sul mercato, un modo più autentico, più diretto e ha cambiato il suo destino.

La personalità della protagonista si staglia sullo schermo luminoso del cinema grazie a quello stesso contesto che vorrebbe tenerla con i piedi per terra. Niente campo e controcampo allora, ma inquadrature in cui tutti i personaggi si ritrovano affollati insieme, costretti a comunicare e a scontrarsi; ognuno con la propria bolla fragile di egoismo, pronta a frantumarsi e a ferire chi sta intorno, liberando l’odore accattivante ma per certi versi malsano di una sceneggiatura che sta in piedi più per i suoi attori che per la volontà di raccontare una storia.

Esattamente come in una soap opera – che appare al momento giusto a scandire la sceneggiatura, trasferendosi dalla tv al nostro schermo cinematografico –  David O. Russell crea delle caricature della realtà, ogni personaggio vive in un mondo a sè; è rafforzato dai dettagli del suo carattere, dall’autorevolezza della voce, dei gesti e dalla confusione che tutt’intorno riesce a creare; è stimolato da una macchina da presa capace di compiere movimenti impeccabili e inquadrature artistiche teatrali, provviste di colori pastello che tanto ci fanno ricordare certe opere di Jack Vettriano, certo assopite da quell’eros che in quei casi ci sconvolge, sostituito però dalla luminosità caotica di Guttuso.
Private comunque della scia immortale concessa all’arte, le immagini di Joy vivono solo nell’attimo in cui le vediamo, poi spariscono travolte dagli eventi e di esse rimane l’alone di Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Bradley Cooper, Edgar Ramirez, Isabella Rossellini, Diane Ladd e Virginia Madsen.

Ancora una volta Russell ci sorprende con una pellicola che sa tenere incollati alla sedia, sa far commuovere, soffrire e attivare l’invincibilità affascinante del “volere è potere”. Una pellicola che in parte delude per la ridondanza delle argomentazioni e che si poggia esclusivamente sulla prestanza recitativa della Lawrence, ma che non può non piacere, non farci rendere conto di quanto sia reale e assurdamente teatrale quello che vediamo al cinema: la famiglia dipinta come un’ancora, un filo al quale siamo indissolubilmente legati, che non abbiamo scelto ma ci appartiene, nella buona e nella cattiva sorte.

La colonna sonora provvede a ricamare il resto di questa storia tutta al femminile, che i fan della Lawrence non potranno non apprezzare, mentre quelli di Russell forse rimarranno delusi.

Joy, videorecensione di Francesco Alò alla Bad Taste


27 Jan

Joy videorecensione Bad Taste

La grande bellezza sorrentiniana di Alò, recensore che le fa a modus suo senza che nessuno possa interferire con quel che stradice, dunque non può ferirlo, sono la sintesi eloquente di uno stile non argomentante tanto il film quanto freneticamente ridondante di suoi ricordi, di ciò che il film, come Tarantino o Gianni Canova, gli ha scatenato nelle viscere cinefile che annegano in un bagno di parole, e allora le spara, sparla, civettuolo smorfieggia, non si contiene, va fuori tema, allora non ci posson essere favole se a dirigerle è O. Russell e non Tim Burton, allora il quadretto grottesco familiare è brutto perché non è sufficientemente arty come nel Cinema di Wes Anderson. Eppur amo Francesco Alò che di Joy se ne frega, raggiunge i quasi 9 minuti di video, rivelandoci un cazzo della trama, non spoilerizza ma di suo scibile arguto sibila e di gioia triste sprizza, cronometro alla mano, il mio commento è incomprensibile quanto lui. Andate a vederlo, De Niro merita di essere stato un cattivo marito, e i parenti son serpenti.

Joy – Recensione da Newscinema.it, enorme film!


18 Jan

E andiamo con Joy!

joyrecensione

Formula che vince non si cambia. Questo è il motto di David O. Russell che, dopo lo straordinario successo de Il lato positivo, costruisce i suoi film rispettando fedelmente i punti fondamentali dell’adattamento dell’opera diMatthew Quick. Tornano infatti una storia sui generis, un cast d’eccezione guidato da Jennifer Lawrence e composto da Bradley Cooper, Robert De Niro, Virginia Madsen e Isabella Rossellini e un’America che profuma di soap-opera; punti di forza che, indiscutibilmente, rendono Joy uno dei film più apprezzati e criticati dell’anno. Il motivo è David O’ Russell, uno dei pochissimi autori ad aver trovato la strategia per costruire il perfetto “film da Oscar”. Quello che si può criticare a Joy è infatti la furbizia che lo contraddistingue perché pochi film possono permettersi di annoverare tanti aspetti vincenti tutti insieme. Partendo dalla trama, semplice e accattivante, Joyincuriosisce lo spettatore raccontando la storia di Joy Mangano (Jennifer Lawrence), una brillante mamma single costretta a reprimere il suo talento creativo per badare a due figli, un marito pigro, un padre egoista e una madre con problemi di dipendenza da tv. L’unica che crede in lei è la nonna che, sin da bambina, la incoraggia a realizzare i suoi sogni. Ma la strada per il successo è lunga e, perfino una invenzione rivoluzionaria come quella del mocio auto-strizzante, può fallire se la tua famiglia non crede in te e le società rivali cercano di rubarti l’idea.

Caratterizzata da un’atmosfera sognante, una colonna sonora divertente e tanti personaggi grotteschi, Joy è una fiaba moderna che racconta una storia straordinaria in un modo tutt’altro che ordinario. Lo humour nero e il cinema dell’assurdo sono infatti le chiavi di lettura scelte da O. Russell per costruire un biopic originale che abbandona la linearità del racconto in nome di una messa in scena che va aldilà della realtà. Il regista di Three Kings, permettendo allo spettatore di perdersi nei bizzarri sogni di Joy, trasforma la vita della protagonista nella soap-opera preferita di sua madre; una situazione costrittiva e opprimente che si scontra con l’ottimismo di Joy, uno degli esempi più interessanti di girl-power degli ultimi venti anni. Inoltre O’Russell, uno dei registi più abili nel rappresentare l’American Way of Life, costruisce nelle interpretazioni, nella gestione degli spazi (tra le sequenze più riuscite c’è il lungo piano sequenza che catapulta Joy sul palcoscenico di una televendita) e nelle scenografie un vero e proprio capolavoro che strizza più volte l’occhio al teatro. E non è tutto. Le straordinarie Virginia Madsen eIsabella Rossellini, nei loro personaggi sui generis, rubano la scena a Jennifer Lawrence che si limita qui ad una interpretazione buona ma che non lascia il segno. Invece il ritmo, l’ironia e le emozioni di questa furba ma efficace opera di O’Russell rendono Joy il tributo perfetto a una donna che ha fatto del coraggio l’arma per diventare una delle imprenditrici più potenti degli Stati Uniti.

 

di Carlo Andriani

Joy – Recensione da La Eco del Cinema, non è Umberto


12 Jan

Film che sta dividendo la Critica ovunque.
Anche in Italia, dopo le fazioni pro vs contro, stiamo leggendo recensioni delle più disparate, alcune che a zero sparano, altre moderate, altre annacquate, altre buttate via, sciatte, sciocche oppure per allocchi, perché il film non è, come leggiamo qui, affatto da stroncare.

E io, essendo preso, precis(in)o, correggo qua e là i refusi del testo da me copia-incollato, corsivizzando, al solito, come mia consuetudine falotic(hes)ca, le parole di derivazione straniera.

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“Joy”,tratto dalla storia vera di Joy Mangano, segue le vicende di una casalinga statunitense che è riuscita a farsi strada nel mondo del business grazie ad una serie di invenzioni per la casa, innovative e particolari, non senza ostacoli e problemi sia sociali che economici.
Voce narrante e presenza importante è la nonna di Joy (Diane Ladd), che da sempre ha avuto fiducia nelle capacità della nipote.

Jennifer Lawrence, nei panni di Joy, offre, come sempre, una prova di recitazione impeccabile, coinvolgendo lo spettatore nella sofferenza e nella frustrazione della protagonista, derivante dal fatto che in campo economico e giuridico ci sia un divario enorme tra coloro che ‘possono’ e ‘non possono’ avere successo. Affidarsi agli altri in questo caso è, come si dice, ‘a tuo rischio e pericolo’.

“Joy”: personaggi che conquistano accanto a una protagonista convincente

A condividere le vicende di Joy c’è la sua famiglia al completo, un gruppo notevole di personaggi ben caratterizzati che bucano lo schermo, dall’ex marito della protagonista (Edgar Ramirez), un latinoamericano troppo impegnato a cantare e a diventare il nuovo Tom Jones per andare a lavorare e mantenere la famiglia, a Trudy (Isabella Rossellini), la nuova fidanzata del padre di Joy, una signora ambigua e a tratti illogica nel suo modo di pensare, che fa ridere e allo stesso tempo riflettere. La madre e il padre di Joy (Virginia Madsen e Robert De Niro) sono dotati di uno spessore e di un’umanità incredibili nei loro numerosi difetti e mentalità ristretta, che potrebbero risultare quasi sopra le righe se non fosse per un carattere così ben strutturato da renderli in qualche modo estremamente credibili.

La sceneggiatura: la carta vincente di “Joy”

A spiccare sopra ogni altro aspetto del film è però la sceneggiatura, un piccolo capolavoro che si destreggia agilmente tra profondità, leggerezza e ilarità, permettendo allo spettatore di non annoiarsi mai. L’elemento surreale, molto simile a quello de “Il lato positivo”, funziona in maniera eccellente e offre momenti di pura ilarità che smorzano la frustrazione costante della protagonista, creando una dualità molto piacevole che alleggerisce notevolmente l’elemento drammatico della pellicola.
Le voci inconfondibili di Ella Fitzgerald e Frank Sinatra condiscono quest’ottimo mix di scene drammatiche, comiche e introspettive che legano lo spettatore al destino di Joy.
Dopo “Il lato positivo”, David O. Russell ci regala per la seconda volta un’opera in perfetto equilibrio, ricca di umanità e di spunti per ragionare sulla vita e sulle relazioni umane.

“Joy”: una soap opera come sfondo della vita

Joy episodicIl tocco brillante di “Joy” è indubbiamente la soap opera che la madre della protagonista guarda tutti i giorni della sua vita, una versione ironica di “Beautiful”, interpretata da famosi attori di soap statunitensi quali Maurice Benard e Laura Wright. La serie rasenta volutamente il ridicolo, portando all’estremo alcune caratteristiche delle soap opera americane per creare situazioni improbabili e dialoghi spassosi, ma è interessante vedere come la madre di Joy prenda come oro colato tutto ciò che dicono, finendo per vivere completamente fuori dalla realtà. Un altro spunto di riflessione che invita a pensare con la propria testa e a vivere veramente, e non attraverso storie raccontate su uno schermo.

“Joy”: un messaggio per le donne

La pellicola colpisce soprattutto il pubblico femminile, perché ogni donna almeno una volta nella vita si è sentita impotente, sacrificata, costretta a prendersi cura della famiglia e a rinunciare ai propri sogni per mancanza di tempo o perché chiunque intorno le mette i bastoni fra le ruote. Joy diventa così un simbolo, un modo per dire: ‘ce la puoi fare anche tu, che non sei nessuno’. Il cosiddetto ‘sogno americano’, che è in realtà il sogno di tutti, e che storie come questa fanno credere sia veramente a portata di mano: l’importante è non smettere di lottare.

 

Valeria Brunori

Genius-Pop

Just another WordPress site (il mio sito cinematograficamente geniale)