Uomo vero mai montato ma vero come le luci di Los Angeles, anche quando bazzica Las Vegas
Da qui, fratelli della congrega, noi, ortodossi e spaccaossa, leggeremo nel mio plurale maiestatis a sua Maestà, il Maestro estatico, Robert De Niro, profeta delle innovazioni alla recitazione, allievo e discepolo di Marlon Brando, Monty Clif e James Dean, Greta Garbo del sacro virente all’anima eleganza della sobrietà fascinosa, sì, narreremo di come il mito ebbe origine e da cui, mai ebbri, a differenza degli ebeti con le “erbette”, ce n’abbeveriamo ancora finché (sua) morte, dunque nostra, non ci s-e-pari.
Robert De Niro, nato il 17 Agosto del 1943, data storica, epocale. Questa è epica!
Ecco Monsieur Falotico che scandisce le parole della biografia redatta da Elfreda Powell, secondo traduzione di Vanni De Simone, per la “Gremese Editore”.
Uditene lo scroscio.
Applauso!
Dono denirante premonitore, amatorio e dorato di “caligini” nei cristalli del Tempo(rale) acquatico, bianco come il germoglio d’un sorriso, laconico di palpebre vulcaniche d’amore
Arrendersi dirimpetto a impettiti ordini è la volontà che si nega a se stessa e, “Sol” innevata, non solleva il baluginare intenso del Cuore. Anche a dissacrante denudarlo, prostrarlo e offrirlo in sacrifizio a una Donna, finalmente, liberi da forche caudine, da quei perentori, impertinentissimi “riti sacerdotali” del growing up generato da una generazione che si professa “adulta” e, invero, io la vedo funestata nell’abominevole realtà del suo vivacchiare, di bacini ruffiani corrugarsi e d’amarezze nel consolatorio “pascersi” d’un benessero dai retrogusti, sempre loro ad assediarvi, è il candelabro di cere mascherate e d’una cena orgiastica già stanca, oh, tanto arranca, “cari” arrampicatori, genuflessi a moine che han lo squallore della vostra “visiera” da squali e di quaglie rosolare a non rispettare l’innocenza che arrossisce, a bruciar, già sepolti vivi, se mai lo foste nella foresta all’adulazione ululante dell’animal vostro più veritiero e avventuresco or sol di “pittoresco” aggrottar la fronte e non lustrarla a fonti assetanti, già putrefatte nella fandonia di tutte queste luride vostre noie. Annotate il prossimo e lo squadrate, il goniometro che lo accerchi nel sorvegliarne le mosse e lederle appena intaccheranno le certezze di questo “cenacolo”, appunto, accigliato e di protervia non più cervo dei nervi per cui nasceste. Farneticate di qua e di là, e v’illlanguidite, scevri di verità pura, per tramonti “pasticciati” da colori(ti) grigissime di grinze e pinzimonio ai demoni uccisi, mai vi dico da annerire nella beatitudine minestra e non più desta di mesto ergerla nelle pindariche albe, che han perso lo smalto di quando il Dio, oggi da voi ripudiato dopo averlo ingegnosamente, da “distruttori” edili, inventato, sventolò armonioso e or, “platinati” d’oratoria e orali consumazioni “animose” affastellati nel “corteggio” di mimose e smorfiose, saccheggiaste, rubandone il cremisi rubino della sua Luce.
Tante, tante ragazzine, che ho sempre orripilantemente “depilato” nelle mie scelte già protese a mature donne più esperte di come il mio Uomo necessitò, precoce, di dissetarsene e inoltrarmene mai placato, in queste placche avare anche del tartaro a illustrazione della fame sempre vostra da ludri marci, del loro stuzzicar da pettegole indaffarate a far e disfarseli in letti subito “fa(r)ine” del sacco insaccato. Quanto sono ed erano lamentose, piccole (de)menti a “onorare” l’arbusto del bestione più appetibile, a singhiozzare ubriachelle e pollastrelle nel rastrellare color a cui sghignazzavano da “vigne” di cigni già nelle sopracciglia bu(i)e del cogliere l’acerbo e non il Peccato di cui adesso mi sazio e palpo, tasto e insisto. Queste donne…, io le adoro, questa femmina che, sfilando le calze, prima t’assottiglia fra mari di sbronze bottiglie strabiche d’ottica a centrarla dopo l’abbuffata lucculiana, poi apron le gambe e incalzi “culinario”, pranzando nel planare in mezzo idilliaco, ché il Paradiso tutto non è se non colei che ti mostra il ghiotto suo “lingotto”, golosa me n’è gola, e urliamo negli scandali, in uno scantinato in cui “la” scandaglio, in un attico in cui la “svastico” celtico e barbaro, liberandola dai nazismi del sesso comandato a bacchett(on)a, in un pianerottolo in cui, pian piano, sale il mio ascensore a goderne fra pause dei “piani superiori” con accenti-accensioni d’intermittenze a spingere per accomodarla nell’appartamento e, sul pavimento, esserle pipistrello di schizzi fra le piastrelle, di piastrine sanguigne allo sperma salato esaltante, esultante alla mia sultana, alla sua sottana nelle tane ove, tenace, grida isterica e la mia batteria non è mai scarica.
All’attacco, “al muro”, ovunque, mentre i delinquenti odian la mia “linguaccia”, invece Lei n’è forbita di mio biforcuto lì e nel culo. Che fionda, che figa!
Sincero, volgare, Uomo e bicchiere argentato mentre ancora sonnecchia di trecce, e forse Morfeo l’accarezza docilmente nel dominante mio amianto senza scheletri nell’armadio di voi che adescate per “pesche” loschissime.
Ella m’augura la buonanotte, ed è apprensiva in assenza di me, gelosa che sia occupato dai miei “affari” ignoti. Questa è malia, è goliardia, è malizia, è Lei dai capelli ambra, ad ammirare le mie ombre, io che non lascerò nessun orma ma ci dormimmo sopra.
La perplessità è di colui che fa della vita un pattuirne senza carpirla o rifletter-si. Sì, è così.
Mi spoglio, Lei mi guarda e, speculare, mi lecca anche quando non c’è nessuno nell’immagine che vorrebbe al fantasma mio forse altrove.
E ne soffre, lo so, questo suo desiderio è struggente.
Mi aspetterai e, in quell’attimo, udirai il tuo corpo al risveglio della prima volta che m’incontrasti.
Ed è per questo che amo Neil. Neil in te, Eva, un edera ed Eady.
Che cos’è un genio, cos’è l’immensità, chi sono i miserabili?
La grande coscienza mia in questo Mondo di pregiudizi e di ribaltati valori, ove amici tradiscon la fedeltà delle alleanze, dei segreti, e origlian nel complotto a “rammemorarti” quant’eri innamorato e ora, per loro, per loro, inaridito.
E come io divenni Joyce, perché anticamera della scoperta…, a essere più veloce nell’odiata contemplazione distorta dalle lentezze.
Questione di lenti e di dimensione prospettica, innalzarsi al di là delle regole criminose quando si bardan di leguleia giustezza. Sì, i legumi di fagioli e petomanie manesche.
Di come l’insano dà pazzia al savio e deforma a sua immagine e somiglianza.
E di come insulta con boria da strapazzo e pagliaccio, nella sua prosopopea “altolocata”.
La vita dei geni s’eleva da chi, non nobile, non è umile e umilia, deride e calpesta i diritti e le libertà, con “insindacabile” arbitrio decreta fine e “ricapitolar” del non aver capito e non ottuso voler capire.
E va in giro, ballando e “gioendo” a schernire mentre scherza su preti, barboni, neri, omosessuali, diversi e chi storpia per stropicciarsi di risa. Altrimenti, ti subissa di risse ché isserà sempre la bandiera del metter a bando e credere d’abbindolare per un “Bingo” da bimbo.
Il genio, diabolico e calmo, altamente se ne… fregia.
Ché la sua anima non è mai fredda. Questo si chiama vivere, si chiama sofferenza oggi e domani armistio, ieri combattimento, l’istante venturo una vertigine, un collasso e altro chiasso, altre chiavi e poi abbattersi, lottare e nuotare, affogare e riemergere.
Questa è la vita.
Il resto è la letale tradizione d’un pasto mai nudo che ha paura di guardare oltre le apparenze.
Che, spaparanzato, usa la zanzariera per non essere irritato “a pelle”, ché teme il suo stesso vampiro offuscato per timor che rabbrividisca senza più la viscida maschera.
E andrà nel trallalà da chi non oserà mai nella rosa ma, cinico, è già cieco.
Questa si chiama lezione di vita.
Fa male, è un dolore atroce.
Ciò che i miserabili si meritavano.
Quel che io merito a dispetto dei loro dispetti.
Buon proseguimento di serata e di vostre “serenate”.
Applauso!
Secondo molti, gli ultimi capolavori interpretati da De Niro sono Heat e Casinò.
Questa è una diceria che ha assunto luoghi da Comunioni.
Sotto, elencherò 7 film che dovreste rivalutare, come il sottoscritto.
Mai dire mai, se puoi dire che De Niro è me.
Sì, lo imito alla perfezione. Anche perché siamo la stessa persona.
Firmato il Genius
(Stefano Falotico)