Posts Tagged ‘Il pianeta delle scimmie’

Nicolas Cage potrebbe essere il mostro di Firenze? Macché. I mostri fanno parte del mio mestiere


14 Feb

nic cage

 

Ora, se volete, leggete quest’articolo: https://www.nme.com/film-interviews/nicolas-cage-interview-color-out-of-space-2608157

Che ovviamente tradurrò per voi. Poiché, miei pelandroni, fate tanto gli esterofili ma, in fin dei conti, credo che non abbiate manco letto un libro in perfetto italiano dalla prima all’ultima parola, arrivando sensatamente alla parola fine. No, non voglio finirla qui, voglio appena iniziare.

Non sarà un’arringa ma forse, dopo aver scritto questo mio pezzo, aprirò il frigorifero e gusterò una fredda eppur cremosa meringa. Lei invece, signora calda da balli latinoamericani, la finisca con la Merengue.

Non faccia la piaciona, lei non piacerebbe neanche a Pietro Pacciani e Mario Vanni, i quali furono denominati, dalle autorità (in)competenti, compagni di merende.

In verità vi dico che vi fu un solo mostro di Firenze, cioè Hannibal Lecter di Hannibal. E lo scrittore Thomas Harris s’ispirò non poco al tristemente celebre Monster of Florence per allestire fantasiosamente, senza nessun riferimento (eh, come no) a persone, fatti ed eventi realmente accaduti, la figura cannibalesca del celeberrimo, succitato psichiatra killer.

Sì, quel Pacciani lì altri non fu che un povero cristo, altroché. Lo sa George Clooney, il quale da anni intende realizzare un film sulle macabre gesta dello Zodiac italiano. Cito apposta Zodiac poiché, così come strepitosamente descrittoci nel capolavoro omonimo di David Fincher, l’identità di questo folle tizio non fu mai scoperta. Costui, a mio avviso, in prima adolescenza avrebbe dovuto guardare Saint Seiya, ovvero I cavalieri dello Zodiaco e innamorarsi, con la testa fra le nuvole, di Martina Stella, una povera cretina abbonata sicuramente all’oroscopo Astra. Sì, sarebbe stato uno stupido qualsiasi.

Ora, chiariamoci, Ad Astra di James Gray è il suo film più brutto. Vorrebbe essere un incrocio fra 2001 di Kubrick, Apocalypse Now nello spazio e Il pianeta delle scimmie quando, nell’astronave del bell’uomo Brad Pitt, non compare un Alien di Ridley Scott ma una sorta di King Kong da Peter Jackson che sicuramente non sa che il nome della navicella del film, ovvero Nostromo, con a bordo la super figa che fu, Sigourney Weaver, donna che all’epoca poteva rendere un uomo primordiale, stimolando con le sue mutandine striminzite i più arrapati, invoglianti istinti maschili maggiormente primitivi da uomini di Neanderthal, ecco dicevo… quell’Adriano Celentano scimpanzé certamente non sa che Nostromo è anche il titolo di un libro di Joseph Conrad.

Ma che ne volete sapere voi, donne da quanto viene il pomodoro alla Conad, eh già, di Cuore di tenebra?

Vi credete sexy come Eva Mendes de I padroni della notte ma, a mio avviso, non solo non cuccherete mai Joaquin Phoenix e Mark Wahlberg ma non vi fila neppure l’oramai matusalemme Robert Duvall.

Insomma, siete donne che fanno venire solo du’ pall’. Invece io, non soltanto adoro Heart of Darkness ma anche Wild at Heart. Ed eccoci dunque arrivati a Nicholas Kim Coppola, sì, il nipote più famoso del mondo.

Altro che il folle tenente colonnello Bill Kilgore interpretato, per l’appunto, da Robert Duvall nell’opera magna coppoliana.

Nic Cage batte tutti i più grandi matti della storia. Che sia lui il mostro di Firenze? Mah, potrebbe pure essere.

Sì, Nic venne in Italia a girare quella schifezza di trasposizione tratta da Ennio Flaiano, diretta da un moscissimo Giuliano Montaldo, Tempo di uccidere.

Sì, è Nic il mostro di Firenze mai catturato.

Adesso, a parte gli scherzi, traduciamo il pazzo, no, il pezzo:

dopo una salita al potere, diciamo, da meteora durante la metà degli anni novanta, che include anche il suo Oscar nel 1996, Cage divenne una caricatura (di è stesso?). Rinnovatosi come animale da party e per aver dilapidato le sue fortune (o sua fortuna) in ogni cosa (o dappertutto), dalle teste rimpicciolite sino alla casa dei fantasmi di un serial killer a New Orleans.

 

Ah, vedete che ho ragione allora io? È Nic il mostro di Firenze, nascostosi a New Orleans ove girò pure Il cattivo tenente di Werner Herzog.

Nic è comunque un grandissimo. L’unico attore della storia del Cinema capace di passare da un film di Scorsese a Mandy.

Molti di voi, invece, a forza di seguire quel matto di Salvini, fate oramai discorsi di questo tipo:

– Stefano, l’altra sera ho fatto l’amore con un’extracomunitaria. Sono malato.

– Perché mai? Fu una prostituta che non usò precauzioni?

– No, una brava ragazza mulatta incontrata in un pub. Adesso, dopo il nostro incontro pubico nel bagno di quel locale pubblico, credo di essere stato contagiato. Sono malato, ho la malaria.

– Perché mai?

– Le donne di un altro colore sono delle lebbrose.

– Veramente? Da quando in qua?

– Anzi, Stefano, ti dirò di più. Gira voce che tu sia malato di mente e paranoico.

– E questo chi te l’ha detto? Una scema o una scimmia?

– Non me l’ha detto nessuno. Nei tuoi video fai delle strane smorfie.

– Ah, solo per questo? Quindi, a tuo avviso, sono ebefrenico-schizofrenico e forse pure malato di fobia sociale, giusto?

Non è invece che tu sei ritardato, vero?

– Perché dici questo?

– Sai, assomigli a un tizio che incontrai, per mia sfortuna, molti anni fa.

– Ah sì? E questo che fece?

– Ecco, di punto in bianco mi disse una cosa mostruosa. Facendomi credere che l’avesse detta altra gente?

– E quindi? Che vuoi dire invece tu?

– Ecco, questo qui aveva e ha ancora un allevamento di cani. Una sera, appena uscii dal mio stabile, tale instabile si presentò sotto la mia casa con un alano. Dicendomi che se non avessi scopato e non mi fossi laureato, mi avrebbe fatto sbranare dal suo mastino. Io entrai in psicosi.

– Invece tu sei ascetico come John Rambo e John Wick. Ora, vuoi vendicarti.

– No, stai sbagliando. Lo perdonai. Anzi, devo ringraziarlo. Involontariamente m’illuminò.

– Continuo a non capire.

– Sai perché il novanta per cento degli assassini seriali non vengono acciuffati? Perché anche i commissari e i poliziotti possiedono una cosiddetta vita normale. Sono troppo presi dai figli, dall’arrivare a fine mese, semmai hanno anche delle segreti amanti.

Io sono una delle poche persone al mondo che, sbattendosene altamente, può essere Matthew McConaughey di True Detective.

La mia mente è fredda, analitica. E, priva di distrazioni, può seriamente concentrarsi su ciò che altri non possono. O forse non ne hanno il tempo.

 

di Stefano Falotico

Che Jena Plissken: ieri son stato al mare. Ho visto in spiaggia molte scimmie. Ho telefonato subito allo zoosafari di Fasano affinché le ospitino


30 Jul

stephanie kurtzuba

Da tempo immemorabile, non mi recavo più, appunto, al mare.

Iodio… no, odio tutta questa folla che s’accalca, che sbraccia per ficcare un ombrellone, disprezzo e detesto tutti questi perizomi e topless di uomini e donne ignude che fanno bella mostra di tutte le loro origini darwiniane.

Sì, conoscete la teoria di Darwin? È sbagliata completamente dalla A alla Z.

Secondo Charles, esemplare di gorilla canuto assai borioso, le uniche specie animali e vegetali che sopravvivono, cazzo, sono quelle coi caratteri ereditari più resilienti e forti. Una teoria nazistica, insomma.

Mah, mi pare già una cagata. Basti assistere all’umanità che ci circonda. Sono tutti dei vegetali animaleschi.

Sì, invero l’uomo, nonostante anni di evoluzione, è rimasto tale e quale al capo branco dei primati di 2001: Odissea nello spazio.

Con le uniche differenze che ora va dal parrucchiere per non sembrare Tim Roth di Planet of the Apes e veste firmato anche se è un semi-analfabeta come Vittorio Gassman de I soliti ignoti.

Vi ricordate quando Totò, nel suddetto film, chiede al personaggio interpretato da Vittorio di apporgli una firma?

Giuseppe Balocchi/Gassman impiega dieci minuti per scrivere la sua firma e alla fine consegna a Dante Alighieri, no, a Dante Cruciani/Totò uno scarabocchio.

Ah, uomo di Lettere. Sei stato in Cina?

 

Sì, oggigiorno sono quasi tutti Laureati ma sono più cazzoni di Leonardo Pieraccioni.

Imparano due pappardelle a memoria, recitandole a menadito a professori più scemi dei loro studenti, cosicché possano intascare il cosiddetto titolo della minchia.

Grazie al quale gli uomini accedono alle maggiori cariche pubiche. Sì, non pubbliche. Pubiche. Col pezzo di carta, puoi avere la strada spianata per ricattare tutte quelle che stanno sotto.

Sì, una volta che sfondi… puoi perfino vantarti di essere un eroe così come fa Leo DiCaprio di The Wolf of Wall Street con quella povera disgraziata a cui firma, appunto, l’assegno.

Lei lo ringrazia platealmente e gli grida ti amo! Con tutti gli altri broker di Neanderthal a elevare Jordan Belfort in Gloria di Umberto Tozzi. Ah ah.

Sì, non è l’attrice Stephanie Kurtzuba, bensì Nicole Minetti con la parrucca bionda. Di mio, che posso dirvi?  Ho scritto il libro La leggenda di King Kong. Cercatelo sulle maggiori catene librarie online. Sì, son sempre stato uno della foresta. Amo Jack London e Tarzan. Una delle mie maggiori fantasie sessuali era quella di fare sesso con Sigourney Weaver di Gorillas in the Mist: The Story of Dian Fossey. Rimasi però intrappolato nelle sabbie mobili da cui il celeberrimo ritornello di Franco Battiato di Bandiera bianca:

siete come sabbie mobili tirate giù…

A Bandiera Bianca e a Bandiera gialla del Pettenati, ho sempre preferito Moby Dick. Una balena che, come tale, non ha bisogno di pettinarsi. Spesso, assomiglio anche a Carlo Verdone/Oscar Pettinari.

 

di Stefano Faloticoweaver gorilla nella nebbiavardone oscar pettinari67827630_10214171692389144_1023803955781566464_n

Con l’impresentabile Dumbo, la carriera di Tim Burton può dichiararsi finita? E la magia del Cinema esiste ancora?


27 Mar

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Ecco, premetto questo. Il film non l’ho ancora visto e credo che in sala non lo vedrò.

Perché dovrei recarmi in una multisala e verrei attorniato da una massa tanto festosa quanto insopportabile di bambini pestiferi e chiassosi. I bambini sono la nostra salvezza ma non è propriamente bellissimo, eh eh, assistere al film di un maestro, quale Tim Burton comunque insindacabilmente è, e venir distratti da incontenibili entusiasmi molto, anzi troppo, fanciulleschi.

Detto ciò, mi attengo, almeno per il momento, a quelle che son state le reazioni della stampa italiana nei confronti, appunto, di Dumbo. Che in maniera quasi del tutto unanime e impietosa ha dovuto ammettere che, malgrado la forte simpatia che noi tutti abbiamo sempre riserbato nei riguardi di Tim, cantore favolistico dei diversi, delle vite difficili ed emarginate, sublimatore fantastico di ogni durezza della vita attraverso le sue nere fiabe poetiche, stavolta ha decisamente toppato. E forse la sua carriera s’è stoppata.

Perlomeno, davvero inceppata.

Invero, la Critica americana gli è stata più benevolente ma, si sa, noi italiani siam retorici a parole, demagoghi in trincea ma anche realisticamente, inevitabilmente più cinici. Sì, paradossalmente, questo già bistrattato Dumbo aveva tutti i crismi di un possibile capolavoro burtoniano. La storia dell’elefantino volante, vessato da tutti, che si dimostra prodigiosamente straordinario, lasciando anche i più stronzi e dal cuore di pietra, come si suol dire, con un palmo di naso, ovvero di proboscide, eh eh.

Ma a quanto pare, almeno leggendo le critiche, qualcosa non ha funzionato. Anzi, non ha funzionato nulla. I personaggi sono stereotipati, Colin Farrell che c’entra? E Michael Keaton, per quanto possa sforzarsi, a pelle non è credibile nei panni del cattivone. E soprattutto questo live action è stato accusato di mancare di poesia. Dobbiamo essere crudelmente schietti. Tim Burton non azzecca un film da una quindicina d’anni e passa. Ma è proprio così? In realtà, il Cinema di Tim Burton è sempre stato questo. Poetico, sì, ma anche molto stilizzato. In un certo senso, persino freddo. E sempre più mi stupisco che in Singles lo si abbia paragonato a Scorsese. In verità, Scorsese è quanto di più agli antipodi rispetto a Burton. Anche se Hugo Cabret, sì, qui lo dico, già lo dissi, è il miglior Scorsese degli ultimi vent’anni. Pensate che bestemmi? No.

Non fatemi più vedere, ad esempio, quella boiata stupida di The Wolf of Wall Street. Oltre a essere un film indubbiamente poco poetico, qui manca propria la poetica, signor Martin. Non v’è morale, non v’è nulla a parte le zinne di Margot Robbie e qualche scena finto-scabrosa che potrà aver entusiasmato e scioccato qualche sempliciotto in vena di scandali ma a me non ha fatto né caldo né freddo. Un film orribile! Diciamocela. Mentre Shutter Island è un film mediocre. A essere proprio sinceri, nei contemporanei tempi del cinismo a buon mercato di Black Mirror, la magia del Cinema, forse un po’ di tutto, s’è persa.

E noi non siamo più quei bambini attorno al falò di John Houseman dello splendido Fog di John Carpenter. Le storie fantastiche, le storie sui fantasmi, le storie tenebrose non ci spaventano né emozionano più. Quindi, non è vero che Tim Burton è finito e che il Cinema stesso sia agli sgoccioli. È la nostra umanità che è deperita, incancrenita, abbruttita. Siamo una società senz’anima ed è tutto un altro discorso. Se dite che questo è moralismo spicciolo, non è così, se volete dire invece che è purtroppo la verità, ahinoi, è così. La gente non crede più ai sogni perché tanto si è accorta che si era fatta soltanto un film inutile e pretenzioso. E la smettesse quindi Ligabue con le sue Luci d’America.

 

Le stelle sull’Africa 

Si accende lo spettacolo 

Le luci che ti scappano dall’anima

 

Ecco, a parte che Africa e anima è una rima baciata, no, assonanza dissonante da filastrocca per neonati, la dovrebbe finire Luciano di conciarsi come il gatto con gli stivali.

E smanacciare al vento nelle lande americane. Luciano, mi dia retta, torni nella sua Romagna e si pappi una piadina o un panino con la mortadella.

Lei, molti anni fa, era anche bravo. Va ammesso. Metteva pepe. Adesso è più sciupato in viso di Tim Burton e potrebbe fare concorrenza a Tim Roth de Il pianeta delle scimmie.

Sì, non me ne voglia, si scherza, lei ha perso da parecchio la testa come Chris Walken de Il mistero di Sleepy Hollow.

E, se continuerà su questa strada, farà la fine di Ed Wood versione “rock”. Sì, prenderemo i suoi ultimi album e li faremo a fettine come Edward mani di forbice. Una bella “tosatura”. Potatura!

Sì, la sua musica si è involuta paurosamente. È passato dai romanticismi schietti e ruvidi da Beetlejuice – Spiritello porcello, con tutti i doppi sensi che infilava da marpione qua e là, a romanticherie più buoniste de La fabbrica di cioccolato.

Insomma, lei si sta trasformando in un fenomeno da baraccone, mio briccone. E, ora che è diventato un riccone, fa proprio il ca… e.

Tanto non ci credi manco tu, Luciano, col tuo lifting da Alfonso Signorini.

Tu eri uno del popolo, un po’ sconcio e sbracato, onesto e simpaticamente sguaiato, perché mai ti sei dato al patinato più scontato?

Questo è grave, molto preoccupante. Sì, ci vuole un chirurgo plastico per rifar daccapo questa società di plastica. Questa società di svastiche e vacche. Ci vuole la poesia di un elephant man.

Un Falotico lynchiano che linci, trinci, no, tranci con occhi da lince come Travis Bickle questo mondo andato oramai… e sapete dove. Sì, un mondo che va stroncato subito. Prima che possa arrivare al primo posto del box office di ogni altra puttanata.

Che gigione che sono, ah ah, un po’ Topo Gigio, qualche volta uomo grigio, spesso uno che non transige in quanto della morale ligio. E volteggio nell’aria, ballando di naso lungo alla Pinocchio anche se le sventole mi tirano le orecchie. Solo quelle…

Insomma, mi sa che Luciano ce lo siamo giocati.

Tim Burton è quasi del tutto andato.

Rimane solo un uomo favolista.

Ed è anche favoloso.

Un uomo che va sempre più su, anche se spesso, va detto, questa società di pachidermi lo vuole mettere in gabbia.

 

 

di Stefano Falotico

Un’altra volta, racconto torpido come una primavera tramontata


15 Jul

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Non è un periodo di malinconia, sebbene questo stato d’animo, nelle giornate tenebrose e anche tediose del mio inconscio “cavallerizzo”, mi assalga e mi rende/a irrequieto. Sono attimi che non auguro al mio peggior nemico, che si sa, si cela sotto truffaldine spoglie per dissuadermi dalla felicità. La felicità comunque è un’utopia e chi pensa di averla raggiunta, invero, più di me pena. M’immagino questa persona felice a raccattar notizie in giro per la rete, per darsi un tono da intellettuale, nel plagio che fa ai suoi pseudo amici, che ricatterà sempre a base di “giustezze” presunte sue, più che altro unte. Persone da starci alla larga e navigar invece per lidi invece inquieti. L’inquietudine, se ammaestrata dal buon senso, fa meglio discernere le cose e ci mostra il mondo per il suo orrendo splendore. Sono stanco di disprezzarmi e anche deprezzarmi, valgo quel tanto che basta a un uomo dotato di acume per gioire dei suoi attimi e fregarsene di chi ti vuol imbrigliare, o meglio dire imbrogliare, in etichette squadranti, in stagne paratie dell’esistenza che cercano d’incasellarti e, se non ti attieni a questi falsi schemi, addebitarti i peggiori appellativi. La gente vive, si sa, di maschere e non accetta facilmente chi non le indossa, creando disagi a chi, anche spensierato, che oggi pare una colpa, non si adatta a quest’ammassamento, anzi ammazzamento, di coscienza.

Sono infastidito, ad esempio, da questa massa affamata di “cinema”. Uso in tal caso la lettera minuscola, perché del cinema non apprezza gli stati introspettivi e la sua immensa profondità, bensì ama le facili “grandeur” della spettacolarità più mercantile. E bisogna vederli, ah ah, come si accaniscono in questi piaceri effimeri, cercandone subito altri per soddisfare i lor palati, anzi “appalti”, borghesi. Ritengo che siano persone sempre insoddisfatte, sempre in cerca di equilibri e surroghino la vita con questi “ammennicoli” ameni, rimandando sempre la visione vera, verace, alla prossima (s)volta che non avviene mai. Credo, insomma, che non “vengano” ma di tante cazzate si svenino.

Io la mia inquietudine invece orgogliosamente sventolo, e non mi svendo, svenandomi.00103105

 

di Stefano Falotico

Siate Lebowski, siate Bukowski, siate Paloschi, siate Falotici


18 Apr

 

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L’Italia è un Paese che spesso mi dà il voltastomaco, “nugolo” nazionale d’illusi tutti portavoce di verità e ignobili saggezza, dispensatori di “perle” a memoria dei porci. Sì, popolo di san(t)i, poeti e navigatori ma poi, stringi stringi, formato perlopiù da gente ignorante, in cui tutti si credono appunto persone che “volano alto”. “Mirabili” nell’esecrabile lor guerra psicologica incatenata a schemi mentali, figli di generazioni a parole innovatori/trici, in realtà castigatori più biechi e caudini e imprigionati in mentalità che vivandano di libertà in teoria e nella pratica invece sono schiavi/e di disvalori mendaci, tutti improntati all’ottica dell’arte di arrangiarsi, del guadagno futile, merceologico, consumatore di avidità.

L’Italia si dichiara moderna e in questo millennio oscurantista “offusca” le persone “pornografiche”, quelle che cioè vivono il sesso libera-mente, remoti/e da prefabbricati castratori delle piacevolezze. Allorché siamo invasi da omofobi, da razzisti, da xenofobi e di ogni cos(ci)a, come dico io, che non sono come loro, iddio, vivaddio, fobici. Puttana quella!

Vige una falsa cultura impiegatizia, ove tutti si cesellano dietro maschere sociali e la prima domanda che ci viene posta quando incontriamo qualcuno è se lavoriamo, come lavoriamo e perché lavoriamo.

Io lavoro afasico, quando mi va, se mi serve, insomma non sono un servo né un uomo severo. Mi piace l’uovo, strapazzato come la mia mente pazzerella che viaggia di qua e di lì e non sogna l’aldilà, poiché considero l’umanità un coacervo di evoluzioni figlie di Darwin, e dunque aspetto gli alieni perché ci liberino dall’alienazione in cui

Dizionario dei film 2012 – I migliori film dell’anno (“L’alba del pianeta delle scimmie”), parte prima


01 Aug

Prefazione di Stefano Falotico, il Genius, Travis Bickle 1979, nato per essere Lui.

Un altro magico journey nelle favole incantatorie del Cinema, nostro diletto supremo e convergenza delle più alte emozioni nel tenue sospirarle e vagabondo adorarle.

 

Un’immersione dentro la celluloide ad abisso dei suoi punti focali, nevralgici, fra tramonti di color alabastro “arrossito” nell’intingerci sui nostri pudori svelati romanticamente, sfocato spalmarcene come febbre divorante per attraccare focosi ai suoi polmonari respiri infatuati dell’immenso, fluttuante arcobaleno, “inghiottirli”, “incenerire” le angosce che ci turbano, veleggiar armonici nel sobrio “assopire” la realtà e mutarla a specchio dell’infinità mastodontica. Come artisti, “sofferenti” gioiosamente nei cunicoli del meandro esplorato, come ricercatori d’oro in questo tripudio di triste, spesso, cinica società che non crede più nei sogni, nella traspirazione onirica a “proiezioni” del grande schermo ottico, o forse finge di non vedere all’interno di tal stupenda, fotografica, dunque immortal profondità con quell’illusorio ma riprovevole senso pragmatico che a noi mai si accor(d)a.

 

Siamo noi i guerrieri dell’amore per l’Arte, e il Cinema rappresenta la montagna più sacra di coloro che protendon alla vetta della Passione.

Dei cieli a limpidezza estrema, a scarnire le nostre combattive anime nel “blob” esplosivo e stordente delle pellicole più suadenti.

N’afferriamo la “disomogenea” miscel(lane)a e inanelliamo prose a venerazione del suo ipnotizzante lirismo.

Come creature di un’altra epoca, “assoldati” al Dio Cuore, piacevolissimevolmente attanagliati dalle sue “morse”, e morsi, appunto divinatori d’eccelso.

D’estrema “unzione” che ci bacia, con delicatezza, d’angelico rinascerci a ogni nuova prodigiosa immagine, a innovarci col nobile fine d’arcuare i nostri lineamenti visi-vi nel “supplicare” altro goderne delle visioni, e innamorati, per sempre, del flusso madido d’intrecci sfavillanti.

 

Mercoledì 1 agosto 2012, 10:54

Ebbene, scoccan le ore a noi più intraprendenti, di palpitazioni emotive affilate come sempre di sogni “errabondi”, corroborati e dunque coloratissimi, talvolta, d’intrepida furia a noi più incarnata, scatenata e dalle “catene” slegata. Come scorribande nel “nitrato” di cavalli pazzi, irti in magnificenze nostre, dorate e ancestrali d’“ammaestrarci” solo a briglie sciolte, pittando le nuvole, anche gli umori “ombrosi” d’annuvolate tempeste caratteriali, mai di “cattedra” pomposa o “s(c)ibilante” (pres)untuosamente, ma forbitamente “crateriche”, in tenue “acquerello” che, pennellando “guasconissimo” d’una irriverenza solo nelle reverenze a noi più congeniali d’innata indagine delle nostre variopinte, pindaricissime, fiammeggianti anime, s’“arzigogola” come un dondolarci mesti e poi “mareggianti” nelle lagune veneziane da gondolieri contemplativi nell’ascetico nostro effonder la purezza acquosa d’una foschia via via più rallegrata ed erta, a cangiar i mutamenti oscillanti dei nostri cuori “arsi” dalle piogge o dai gocciolii d’appassionate immersioni stupende ove i raggi della solarità ancorata all’“accorarci”, appunto, di cavalleresco veleggiarci, ci svela in vortici mnemonici d’immagini già (sovra)impresse nei nostri cutanei bagliori di folgori fulminee, dunque profondi sotto l’appariscenza meno visibile ma di visibilio visivo, nel fulminarci di Bellezza.

Atrocemente vivi e fieri.

 

Passeggiai, di motivetto “serenetto”, stamane lungo questa città, tetra d’Inverno e desertica d’Estate, oggi ch’è vigilia d’Agosto, anzi no, è proprio l’1 del mese più rovente dell’anno, mese di spiagge “bikinizzate” per esibizioni “costumistiche” ove una bionda impiegata impiegherà mezz’ora solo per infilarsi nel “bagno”, “estatico” appunto degli occhi allupati di bagnanti già essiccati dal brivido di desideri furibondi, castrati da docili mani “ammogliate” per vol(t)ar la vista verso l’orizzonte tramontato dell’o(r)mone, al fin “taumaturgico” dell’ipocrisia “conciliante” con le nuziali “fedi” d’un anello al dito che ha promesso giuramento e ne ha irreggimentato la lussuria, nel caldo rifiorita, ma da sfiorir ché non riaffiori il maschio che eri, prima che t’evirò.

Sì, immagino la giornalista Elvira, stanca di discorsi “balistici” d’un Calcio che odia ma le mantiene il privilegio d’essere amata dalle videocamere “spioncine” delle sue maestose gambe di minigonna attizzantissima fra un goal e un’esultanza del “volpon” che ferma la cardiaca “serenità” d’un “tifo” molto “afoso”, (s)lanciato, slacciatissimo, “investigativo” a spogliar le sue calze, lì lì, indecisa se mostrar impudica il seno, pezzo forte, o “spezzettartelo” in due, tranciata in “monodose” di pareo “detergente”.

 

Al che, “violentato” dal desiderio riscaturito di gola bruciata dalla temperatura bollente, impazzisco, e decido, come il mio amico di (s)ventura Ismaele, il “mozzo” delle balene bianche, di sguazzar nell’Oceano spirituale d’elevazioni filmiche, forse per “tramarmi” d’intrecci “aggrovigliati” a un casto “cinturar” l’onor valoroso da coltissimo cinefilo, per dimenticare (per un po’, solo “istantanee”) le rive troppo “asciutte”, e navigar di perpetui, “abissali” tuffi, quasi quanto le nostre olimpioniche, “greche”, statuarissime campionesse dei “trampolini carpiati” e da me carpiti in stardust golosità più metafisiche.

Sì, Elvira ha un fisico che ti fa “tribolare” peggio del fisco, è una che se la vedi poi “fischietti”.

E, se ti deluderà d’un “No(do) reciso”, la fiaschetta sarà di consolazione per non esserti “assolato” con Lei. Non confidatelo, amo quella Donna, i suoi tacchi “depredaron” la mia virilità da “macho man” alla Kevin Kline, e mortificarono, “pietrificandomi”, il mio In & Out(ing) in zona “Onoff”, incerta e titubante se corteggiarla o esser avaria, “torpediniera”, del mio “modellino” da nautico in miniatura.

Sì, non merito la sua statura, e Lei non merita il mio cervello e il mio amor visceralissimo per il Cinema.

Perché il chiodo tu batterai, ma non ti schiodi dalla prima, più vera e vivifica infatuazione fastosissima, la Settima Arte, la più grande di tutte, poiché in essa convergono tutte le altre d’amplessi (s)fumatissimi.

Virtualità o realtà più nuda delle maschere carnevalesche di Elvira? Bugiarda della sua sensualità?

Sì, il Cinema mi salverà dalle sue grinfie, e “smalterò” le unghie del mio erotismo in un onirismo catartico.

L’importante, comunque, “ricordatelo” sempre, è unire appunto al “piccante” i neuroni plananti.

Mai platinati, semmai ci pattiniamo sopra, di gusto zuccheroso, poi malinconico, un po’ sal(t)ato. E molto saettante.

Tutto questo preambolo, un po’ “embolo”, per presentarvi il nostro nuovo “Dizionario dei film”, stavolta della stagione appena trascorsa.

 

Come ben sapete, l’anno scorso, io e Valerio Vannini, cioè Travis Bickle 1979 e Spopola, che io scrivo sempre con la “S” di Superman maiuscola, abbiamo allestito un vademecum di recensioni e “bizzarrie” che, oggi, ha trovato sovran diritto di cittadinanza alla Feltrinelli ed è acquistabile sul sito “Ilmiolibro.it”.

 

Tutto partì per affinità elettive, una raccolta entusiastica che “copia-incollò” le nostre opinioni su “FilmTv.it” proprio qui, su “Cinerepublic”.

 

Le potete trovare tutte in tal luogo, già, “guarnite” di clip, curiosità, filmati, locandine, poster trailer.

 

Perché dunque non ripetere la straordinaria, unicissima esperienza e imbastirne un altro, semmai ancor più grande, più completo, più articolato e anche più “ermetico?”.

 

Come sempre, c’avvarremo di “guest star”, le firme più autorevoli del nostro sito per dar voce un po’ a tutti, indiscriminatamente, come già avvenuto per il primo…

 

Ma esagereremo, eccome se remeremo.

 

L’imprescindibile, illuminato nostro M Valdemar  ha dato il suo assenso e la sua magia di “assenzio” per un “Non c’è due senza tre”. A cui, come detto, se ne aggiungeranno altri.

 

Anche il magnifico, titanico ROTOTOM fa parte dei nostri, i quattro moschettieri, quindi. Arditi e “arsissimi” nella celluloide, di spade incalzanti.

 

Sì, dunque vol(t)eremo su incantatori sprazzi e spaziali orbite filmiche, “mirati” nel vento e nelle memorie.

Capitani coraggiosi, cavalieri romantici e romanzeschi, Excalibur nostra per un Sacro Graal perduto, forse dalle inique “modernità” d’un progresso che sta schiacciando progressivamente, appunto, il magma favolistico delle eruzioni più intimamente “evolutive”.

 

Cristo, coi suoi fedeli, apostoli d’un terzetto via via ad allargarsi e prender forma e sembianze.

 

Recensioni quindi personalissime, perle come Atlantide sommersa da “dissotterrare” dall’Oceano, forse (ig)noto, e rifulgerle in tutta eroticissima, erculea, forzuta, energica, adrenalica robustezza.

 

Stoici combattenti.

 

E allora, come Gerard Depardieu/Cristoforo Colombo del capolavoro di Ridley Scott, 1492… La conquista del paradiso, eccoci qua, Io, e le irrefrenabili tre caravelle a imbarcarci per lidi di scoperte magnifiche e immaginifiche, col timon d’un Peter Weir che ci sprona soffiandoci nelle iridi d’ incontaminato idillio visivo e in noi fulgido.

 

Chi è M Valdemar? “Misterico” personaggio d’ascendenza lynchiana, il cui nome, forse, riveleremo più avanti, forse in una Notte tempestosa e solitaria, “nudissima” a confidarci chi (non) siamo, nell’autentico guardarci dentro e negli occhi.

 

Chi è ROTO? Questo genio cinefilo che, dal vivo, è più bello e sexy di Javier Bardem?

Avrete modo d’ appurarlo, forza, salite sulle nostre navi.

 

Miei prodi, noi lodiamo il Cinema!

 

E mi sembra, quantomeno doveroso, iniziare il viaggio con Valerio, mio mentore e raffinatissimo chef che ci fa gustare i film come pietanze prelibate quando apriamo la bocca, anzi no, il boccaporto e pranziamo assieme.

 

 

In una data indeterminata…

 

L’alba del pianeta delle scimmie di Rupert Wyatt

 

Will (James Franco), giovane scienziato, sta cercando di sviluppare una cura per l’Alzheimer attraverso la creazione di un virus benigno capace di riparare i danni provocati dal morbo. Quando la ricerca viene chiusa, Will decide di tenere con sé il figlio di una delle sue migliori cavie, lo scimpanzé Caesar. Ben presto, Caesar comincia a mutare a causa degli effetti del virus fino a divenire il capostipite di una nuova stirpe che dichiarerà guerra agli umani.

 

 

Il pianeta delle scimmievero e proprio cult non solo fantascientifico della seconda metà del secolo scorso girato da Franklin J. Schaffner nel 1968 e sceneggiato da Michael Wilson e Rod Serling a partire dal romanzo di Pierre Boulle, con il suo rovesciamento radicale della gerarchia uomo/animale e il bellissimo e inquietante finale pieno di apocalittiche premonizioni sulla stupidità del genere umano e le disastrose conseguenze che ne potrebbero derivare per troppa presunzione e sete di potere, è entrato a buon diritto nell’immaginario collettivo di intere generazioni di spettatori diventando un classico del genere per quel suo essere un thriller sociologico futuribile, ma allo stesso tempo anche una favola filosofica e politica che, ambientata in un domani ancora lontanissimo, parla però di un presente non tanto immaginario pieno di incertezze e di azzardi come quello in cui viviamo.

Il successo del film fu davvero planetario, ed era inevitabile che invogliasse gli studi hollywoodiani a sfruttare le ardite tematiche implicitamente suggerite fino a spolparne l’osso, inventandosi altri episodi intorno e creando di conseguenza una saga organizzata in ulteriori quattro capitoli fra sequel (L’altra faccia del pianeta delle scimmie, 1970) e prequel (nell’ordine, Fuga dal pianeta delle scimmie del 1971, vero e proprio anello di congiunzione fra presente e passato, 1999: Conquista della terra del 1972 e Anno 2670 ultimo atto del 1973) sempre più stanchi e ingarbugliati (nessuno dei quali davvero all’altezza dell’originale), finalizzati soprattutto a raccontare in quale modo si era potuti giungere a quel punto di “non ritorno” messo in scena con appassionato vigore anche visionario (magnifica la fotografia di Leon Shamroy) dalla pellicola di Schaffner.

Quando in America si è a corto di idee, si cerca poi sempre di ripercorrere sentieri conosciuti sperando di rinverdire gli allori correndo pochi rischi, e anche in questo caso ci si è provati a farlo (un po’ maldestramente per la verità) già nel 2001, Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie (diretto da Tim Burton), che si conferma un remake tutt’altro che memorabile e poco necessario, se non per un finale ugualmente inquietante e particolarmente indovinato, comunque insufficiente per riscattarlo interamente e dare un senso compiuto all’operazione di rivisitazione.

La crisi sempre più profonda degli studios, e il progredire delle possibilità offerte dall’evoluzione della tecnica computerizzata degli effetti speciali, ha poi determinato una nuova attenzione “commerciale” sul soggetto che ha generato nel 2011 questo L’alba del pianeta delle scimmie diretto da Rupert Wyatt, con il quale si è cercato di ritornare di nuovo sull’argomento in modo più personale e “realistico”, proprio mettendo in scena il prologo di quella tragedia con una sceneggiatura molto liberamente ispirata al libro di Pierre Boulle (o meglio a quello che tale romanzo poteva suggerire fra le pieghe), ma ben strutturata e credibile, scritta a quattro mani e con intelligenza narrativa da Rick Jaffa e Amanda Silver.

Pur rimanendo nel segmento minato dei blockbuster, il risultato possiamo definirlo un gradevolissimo ibrido fra divertimento e impegno che è riuscito a centrare pienamente entrambi gli obiettivi, fornendo per altro davvero nuova linfa a una impresa che io personalmente avevo immaginato (evidentemente sbagliando) persa in partenza.

Intendiamoci: niente di eclatante, ma l’intelligenza che il regista ha messo nel narrare per immagini questo “rifacimento inventivo” della Genesi della Storia, lo rende particolarmente interessante proprio perché, nonostante la contiguità tematica e di riferimento, Wyatt è riuscito a lasciarsi definitivamente alle spalle la sudditanza psicologica verso la serie originale, realizzando così un kolossal stimolante per più di un motivo (e soprattutto meno ovvio) che, proprio partendo dalle vestigia un poco arrugginite delle ultime precedenti puntate, ripropone spettacolarmente e narrativamente temi ormai in larga parte sfruttati e forse anche un poco usurati, ma rigenerandoli “a suo modo” e senza troppi timori reverenziali, non perdendo però mai di vista il “timone” che consente comunque di restare inequivocabilmente “dentro” la storia, anche se letta da un’altra prospettiva (anche temporale), un procedimento questo che finisce per rendere il film un prodotto certamente “commerciale”, ma di gran lunga più valido e interessante di quasi tutte le altre pellicole in circolazione e ormai tanto di moda a Hollywood, che hanno organizzato il proprio percorso narrativo come prequel, o reboot proprio per andare sul sicuro.

L’azione è infatti ambientata ai giorni nostri o giù di lì, e parla di uno scienziato, Will Rodman, che ha appena scoperto un farmaco che cura l’Alzheimer attraverso la rigenerazione delle cellule cerebrali. Ma quando uno degli scimpanzé da lui utilizzati come cavia riesce a fuggire, seminando il panico, il progetto va a monte e l’animale viene abbattuto. Il figlio dello scimpanzé, che ha ereditato un’innaturale attività cerebrale, viene adottato quasi come atto riparatorio da Will, ma l’intelligenza dell’animale aumenterà esponenzialmente con la crescita, fino a eguagliare (ed anche superare) quella umana, creando qualche grosso problema di contenimento.

Grande spazio è infatti lasciato proprio al mondo animale, il che potrebbe far pensare persino a un blando tentativo di provare a rinunciare – grazie alle nuove frontiere della teconologia – al ruolo una volta preponderante degli attori in carne e ossa, a favore delle sorprendenti “creazioni” digitalizzate delle scimmie (creature ibride, quasi “realizzate in serie” a opera di Andy Serkis e della Weta, che per la verità sono così perfettamente e realisticamente “(in)naturali” da far ampiamente rimpiangere – per lo meno a me – i più artigianali trucchi scimmieschi su attori in carne e ossa inventati da John Chambers per il film di Schaffner).

Il meccanismo del ribaltamento che punta alla collocazione dell’uomo in un contesto animalesco (e viceversa), vero elemento scioccante (e anche disturbante) di tutti i vari tasselli della serie, rimane evidentemente invariato anche in questo caso, ma rimodellato e vivificato da una ingegnosa riscrittura interna che prova (e ci riesce) a capovolgere ogni “certezza” precedentemente acquisita dagli spettatori (intendo riferirmi soprattutto a coloro che già sanno come nel prosieguo andranno a finire le cose), una condizione di sospensione incredula che crea una costante tensione che si propaga per tutto l’arco di un racconto che altrimenti potrebbe essere considerato persino risaputo, scontato e poco coinvolgente.

Come ci fa giustamente osservare Mauro Antonini su “Segnocinema” n. 172, nel vero e proprio gioco di ribaltamento interno del racconto fatto dagli sceneggiatori e dal regista, i ruoli dei due scimpanzé della saga originale (Cornelius e Zira) vengono questa volta volutamente assegnati a due “umani” (Will e Caroline) che sono però chiamati a svolgere le stesse funzioni narratologiche delle due scimmie (il riferimento è soprattutto al terzo titolo delle pellicole realizzate negli anni ’70) e nel fare esercitare loro persino gli stessi mestieri (scienziato e dottoressa). Nell’incipit per altro viene citato in maniera abbastanza esplicita proprio 1999: Conquista della terraanche se poi l’ombra sinistra della bomba si trasforma qui in una mutazione dei geni (lo sfruttamento di cavie animali per fare esperimenti in laboratorio alla ricerca di nuovi orizzonti per la medicina, un mondo di prigionieri vessati e “torturati” che, trovato in Cesare il loro capo, si ribellano in massa con il furore distruttivo dell’intelligenza acquisita, per sovvertire l’ordine delle cose e “capovolgere” le regole del gioco).

L’alba del pianeta delle scimmie si conferma quindi anche come un’opera che, grazie alla densità tematica e alla forza affabulatrice del racconto, è in grado di compattare e di fonderli insieme i tanti registri e i numerosi riferimenti evidenti, mai banali o superflui, usando come reagenti e catalizzatori, ingredienti tipici dei blockbuster come la suspense, l’azione e la spettacolarità ma con una capacità invero inconsueta, che è poi quella di utilizzarli nel pieno rispetto delle regole del settore, ma dominandoli e addomesticandoli in maniera creativa, senza però renderli una antitesi sostitutiva del cuore pulsante del progetto che forse fra le righe vuole essere anche politico.

E proprio grazie a questo insolito modo di organizzarsi e di sostenersi, il regista riesce a evitare gli errori dei suoi protagonisti umani, non perde il controllo della sua stessa creatura, non ne dimentica la specificità e la differenza ma, anzi, le coltiva (Federico Gironi, “Filmcritica” n. 508). Tematiche che spesso si muovono in sottotraccia comunque (è un po’ il destino delle opere realizzate per fare grandi incassi) e supportate da una espressività ridotta delle scimmie che, a parte gli occhi (severi, colmi di odio e di furore), non presenta poi molte altre differenze di “riconoscibilità” differenziata, ma che riesce a diventare una miscela esplosiva quando Cesare, il primate “emancipato”, evade dalla struttura che li imprigionava, portandosi dietro tutti i suoi compagni, e il gruppo, il branco diventa una inarrestabile marea che invade le strade di San Francisco, prima alla ricerca di altre scimmie da liberare, e poi di un luogo in cui esiliarsi momentaneamente per “crescere”, mutarsi definitivamente e passare finalmente al contrattacco. Una vera e propria tattica da guerriglia urbana insomma quella portata avanti con indignata consapevolezza e frustrazione dagli scimpanzé in cerca di riscatto e di “potere” dove, invece e per contro, i tentativi di repressione della rivolta incontrollata della specie da parte delle autorità cittadine, sembrano avvicinarsi con inquietanti analogie comportamentali a quelli messi in atto con analoga virulenza per contrastare e “domare” gli scontri di manifestazioni “libertarie” di ogni tipo in giro per il mondo, quasi che Wyatt intendesse lasciare spazio, fra le regole codificate dei blockbuster dedicati ai supereroi di turno, a qualcosa di più nobile e importante che tende a trasformare Cesare nella metafora evidente di uno Spartaco o un Che Guevara delle scimmie (ognuno con tutta la retorica che si porta dietro, ma con una novità importante e non secondaria: il “potere” che si trasforma da fatto politico in una questione di evoluzione mentale, oltre che di genetica modificata).

Ottima la tecnica complessiva del regista ed eccellenti gli avvolgenti piani sequenza che , soprattutto nelle parti più concitate, si alternano ad acrobatiche carrellate aeree che rendono dinamiche le scene: buona soprattutto la prova di James Franco che, nonostante le premesse fatte sopra (la probabile marginalizzazione degli attori prevista dal progetto), riesce a imporsi con la bravura del consumato interprete portando in primo piano la figura del personaggio a lui affidato, per altro ben coadiuvato nell’impresa da tutte le altre caratterizzazioni “umane” di contorno.

Come conclude proprio Gironi la sua recensione, a questo punto allora resta solo da sperare che l’apocalisse politica e sociale che la pellicola preannuncia inequivocabilmente, possa essere contraddetta in extremis da una nuova consapevolezza: quella che il personaggio interpretato dai James Franco riesce a intravedere, ma solo nelle ultime scene, e che non si tratti invece di uno zuccherino messo a bella posta per mandare a casa lo spettatore con meno nuvolosi presagi sul futuro.

 

 

(Valerio Vannini)

 

 

Un post di Stefano Falotico

 

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