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Il Falotico assieme a Takeshi Kitano


26 Jun

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La top ten dei miei film preferiti dello scorso anno: siamo sicuri che sia così insuperabile il Cinema orientale? Mah, forse sì


13 Feb

exiledPremettendo che ancora non vidi (sì, uso il passato remoto apposta) Parasite, domenica scorsa assistetti al colorato discorso di Federico Frusciante su Tetsuo di Tsukamoto. Che è giapponese come Takeshi Kitano. Fuori dal Mikasa Club, ove si tenne la sua presentazione cinematografica, gli accennai brevemente proprio in merito a Kitano. Chiedendogli espressamente se consideri Achille e la tartaruga un grande film. Lui mi rispose:

– Be’, è Arte pura.

 

Il che significa tutto e significa al contempo nulla. Vi fu un tempo in cui Kitano fu un regista indiscutibile.

Ci furono però annate, prima della sua sottovalutata trilogia di Outrage, in cui molti dubitarono della sua genialità. Poiché, sebbene largamente apprezzate, pellicole troppo personali come Takeshis’ e Zatôichi, più che Arte pura, apparvero sinceramente coma masturbazione mentale impura, nel senso non di atto impuro, bensì di opere imperfette e/o irrisolte.

Forse, concettualmente geniali ma talmente, per l’appunto, ermeticamente agganciate alla sua poetica soggettiva che, agli occhi anche dei suoi fan più sfegatati, sembrarono di primo acchito, più che figlie del genio, partorite semplicemente da un neuronale blob kitaniano di matrice ghezziana.

Infatti, al caro Enrico Ghezzi piacquero da morire e, più del dovuto, le magnificò ed eresse, forse erse, ah, i dubbi da Hermann Hesse, in auge.

Ora, chiariamoci. Non è vero, a differenza di come, in tal caso non semplicemente, bensì un po’ semplicisticamente, generalizzò Frusciante, ma lo capisco, fu costretto per brevità a eccedere di sbrigatività, che i film provenienti dall’Oriente siano superiori a quelli occidentali per il semplice fatto che, nelle terre del Sol Levante, non s’è avvezzi all’italiota manicheismo e al più becero qualunquismo. Spesso relativistico.

Dobbiamo dirci la verità senza farci prendere e assalire da esterofilie e orientali manie connotate di semplicismo e superficiale esaltazione anti-patriottica. Non facciamo i leninisti, sì, è vero, basta coi vetusti latinismi ma dovremmo smetterla anche col dire che, a proposito de L’insostenibile leggerezza dell’essere, l’ex stupenda modella tedesca Tatjana Patitz, solo perché diretta da Philip Kaufman in Rising Sun con Sean Connery e Wesley Snipes, sia meno affascinante di Céline Tran, in arte, qui eccome se impura, ribattezzata Katsuni.

Nel lontano 2006, per esempio, chiesi a un mio amico di Monselice, del quale già vi parlai innumerevoli volte, perché mai considerò Katsuni più sensuale delle super statunitensi attrici altrettanto non geografiche ma solo pornografiche.

– Perché mai – gli domandai, infatti – Katsuni ti piace di più delle sorelle Ashley e Angel Long?

 

La sua risposta fu questa:

– Perché sono un uomo da Tokyo Fist e da Tokyo Decadence. Sto anche scrivendo un libro intitolato Tokyo nera in cui parto da Paperino della Disney per arrivare a un delirio e trip visivo-letterario da Cinema di Takashi Miike.

 

Gli replicai così:

– Non è che invece, più che uomo da Sonatine, sei già molto suonato e, più che amante della bellezza non solo femminile, bensì artistica e in senso lato, non intendo quello b, inoltre più che essere tu un esistenzialista malinconico alla Hana-bi, sei invece in fin dei conti il miglior amico del Beat de L’estate di Kikujiro?

– Che vorresti dire, Stefano? Che sono un bambino?

– Voglio dire che la bellezza non ha confini erotici, no, esotici. È bona Katsuni ed è molto buono il romanticissimo Dolls, però sono buone anche le sorelle Long.

– Ah, Stefano, tu la sai lunga…

 

Ecco, detto ciò, dopo questa mia spiritosaggine, più che da Philip Kaufman, da Jim Carrey di Man on the Moon, cioè Andy Kaufman, a essere proprio sinceri, i film di Ki-duk Kim sono noiosi non perché noi siamo italiani e quindi fatichiamo a capirli. No, non è per questo. I film di Chan-wook Park sono decisamente più belli. Ed entrambi, guardate bene, sono cineasti sudcoreani.

Ora, in Italia abbiamo quella merda del Festival di Sanremo, le polemiche su Morgan, i cachet esagerati a Benigni da Zio Paperone, l’esagerata e plastificata, esaltata Diletta Leotta (comunque una carina Minnie con grosse minne per ogni Mickey Mouse che si crede un latin lover come il Mickey Rourke che fu), abbiamo gli improponibili Gabriele Muccino, troppi cappuccini e quella Nonna Papera, che si crede pure figa, di Paola Cortellesi.

Dobbiamo però anche dire che l’Italia e il nostro Cinema possono vantare film, sebbene pochissimi, che riuscirebbero benissimo, già peraltro alla grande riuscirono, a rivaleggiare nelle maggiori competizioni perfino coi migliori film cinesi, thailandesi, nipponici e via dicendo.

Per esempio, Lo chiamavano Jeeg Robot, solo perché fu scritto da un guaglione dal cognome Guaglianone, non potrebbe battere, secondo voi, in un solo colpo da Ken il guerriero, maestro della sacra scuola e disciplina di Okuto, Ronin di John Frankenheimer? In effetti, no. Ah ah.

Ecco, ciò per dire che esistono i grandi capolavori della Settima Arte orientale ma non è vero che il Cinema migliore sia soltanto quello oltre i nostrani confini e quelli statunitensi.

Non facciamo di tutta erba un fascio, amico Frusciante.

Ecco comunque la mia top ten in ordine sparso:

Joker di Todd Phillips: quando Arthur Fleck, poco prima di ammazzare sua madre, cammina con l’impermeabile in stile Unbreakable sotto la pioggia notturna, la fotografia acquosa e molto piovigginosa, su luci al neon fluorescenti e melanconiche, batte ogni frame di tutte le pellicole di Kar-Wai Wong.

Dunque Richard Jewell di Clint Eastwood. Con tutto il bene che voglio a Scorsese e a Tarantino, il film di Eastwood è più struggente, in una parola, più bello di The Irishman e più tragico di C’era una volta a… Hollywood.

Ecco, finita la top ten.

– Che cosa? E gli altri otto film dove li hai messi?

– Ecco, ragazzo, conosci il dialogo finale di Per qualche dollaro in più?

Colonnello Mortimer: Che succede ragazzo? Il Monco: Niente vecchio, non mi tornavano i conti. Ne mancava uno.

– Qui ne mancano otto, però. Stai scherzando, vero Biondo… tu… mi vuoi fare uno scherzo, eh?

– Non è uno scherzo, è una corda. Su, avanti, mettici dentro il collo, Tuco.

 

Insomma, Il buono, il brutto, il cattivo è onestamente più bello de La tigre e il dragone.

– Ma che risposta è, amico? Che pensi di essere il più bello?

– No, figurati. Non lo penso affatto. Ci mancherebbe. Lo sono.

Toglimi però una curiosità. Davvero tu pensi che ogni film orientale, anche il più trash, sia sempre inappellabilmente meglio di ogni altro film di un altro continente?

– Sì, credo proprio di sì. Perché sono più intelligente degli altri e questa è la verità.

– Perfetto, apposto. Dunque, sei più scemo di quello che pensavo.

Spesso, amico, assomigli a Kitano. Non come regista ché non si discute. Per quanto invece riguarda la sua recitazione come attore, eh sì, è più espressiva la facciata di una stampante degli anni novanta.

– Ma che ne vuoi sapere tu di Cinema orientale?!

– Mi ricordo che vidi Exiled del grande Johnnie To al Festival di Venezia del lontano 2006. Magnifica storia d’amicizia girata con riprese alla Michael Mann e un finale tarantiniano alla Sergio Leone.

Amico, invece che ne pensi di Windtalkers di John Woo? A me ha sempre commosso la scena nella quale Joe Enders/Nicolas Cage osserva, stupito e incredulo, Ben Yahzee/Adam Beach che prega il suo dio. Insomma, due culture agli antipodi che d’empatia si compenetrano. Poiché forse l’amicizia e l’umanità, l’amore e il dolore della condizione umana sono un libro di Yoshimoto Banana.

– E noi due invece chi siamo? Jean Rochefort e Johnny Halliday de L’uomo del treno (L’homme du train) di Patrice Leconte?

– Mah, amico, a me dicono che sia un bimbo favolista da Fantaghirò. Detta come va detta, Alessandra Martines, la donna del Leconte, m’ha sempre eccitato oltre ogni Racconto dei racconti da Garrone.

Quindi, vedi di non farmi girare i coglioni perché, altrimenti, potrei diventare Johnny Halliday di Vendicami.

– Ah, certo che tu ne sai di Cinema. Comunque, è meglio Ryan Gosling di Solo dio perdona.

– Può essere, non lo so. Adesso, ficca nel lettore dvd il film Brother.

– Ah, te la tiri da Alain Delon di Frank Costello faccia d’angelo, invero sei solo un coglioncello.

– Invero, Alain annunciò il suo ritiro ma dovrebbe invece presto girare il nuovo film del Leconte con Juliette Binoche.

– Che vuoi dire?

– Che Juliette è bella.

 

 

di Stefano Falotico

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Lazzaro felice: anch’io rimembro i tempi olmiani del mio uomo “semplice” depalmiano


14 May

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Mi giunge voce, anzi, mi giungono voci attendibili che questa pellicola della Alba Rohrwacher sia ottima da “socmel che filmone”, ah, la Alba, come dicono a Bologna, sì, davanti a un nome proprio, soprattutto femminile, i felsinei usano l’articolo determinativo o la preposizione articolata, tanto per personalizzare persone che invero spersonalizzano.

Mi ricordo la mia insegnante delle medie, di nome faceva “la” Delfina, sì, come il mammifero col più alto quoziente intellettivo dei mari anche se lei si sposò alla Geologia e ha mai saputo placare i suoi terremoti emotivi. Udivo dei litigi sconquassanti tutto il palazzo fra lei, il marito e i figli. Codesta donna instabile abita nel mio stabile e ogni volta che c’incrociamo lei finge di non vedermi, perché tradii le aspettative che serbava nei miei riguardi. Sì, lei m’indusse a iscrivermi al Liceo Scientifico ma la matematica, in verità, poco tutt’ora si addice alla mia anima umanista. E così, anziché prendere l’ascensore, resto appiedato. La storia della mia vita.

Sì, peraltro sono anche un impressionante impressionista, un espressionista molto espressivo, un cubista che adora i culi delle cubiste, ché disegnano fantasie proibite sghembe, desiderose di entrar nelle loro da me ambite, poco lambite gambe, à la Picasso di smanioso ca… o schizzante come un pennello di van Gogh, un futurista amante di Miami Vice, anche della versione con Colin Farrell, un realista, un surrealista, un simbolista, in passato un fancazzista, domani chi lo sa… forse ancora un nobile d’animo ma povero come un contadino troppo passatista, retrogrado e però alienista. L’alienista non è un alienato, informatevi, bensì uno psichiatra che cura le vostre malattie mentali. Sì, vedo molti malati in giro, malati di boria, di arroganza, soprattutto di panza. Gente che pensa di vincere le palme d’Oro filmando il didietro di Giorgia Palmas come lo vedrebbe Michael Caine di Vestito per uccidere di Brian De Palma. Sì, dei maniaci guardoni ch’eppur ti squadrano come una sequenza al cardiopalmo de Gli intoccabili. E ti considerano sfigato e si toccano. Ora, ne vogliamo parlare dell’omaggio depalmiano de La corazzata Potëmkin, miei fantozziani che sparate sul prossimo delle cagate pazzesche? Ho scritto cardiopalmo, sì, si può dire, è maschile quanto cardiopalma che ha una “desinenza” come quella delle donne in menopausa, di a finale aspirata, “svenevole”, sì, (av)viene quando la scena è “bollente” come una vampata da ex zoccola. E la tachicardia aumenta all’unisono fra un Andy Garcia con la pistola in mano e un Costner che non sa che cazzo fare. Capolavoro!

Sì, un tempo fui un lazzarone, poi risorsi come Lazzaro, miei poveri cristi.

Ma ancor vago per le campagne anche in Campania e so campanare non ascoltando più le “buone” campane. Ma scopandomi perfino, forse non finemente ma finalmente, quelle calabri. Come un colibrì volteggio di qua e di là, inafferrabile e inchiappettante con far da stupido andante, da rincoglionito “tonante”, ma so “suonarle” con occhio strabico da pesce lesso in mezzo a questi bolognesi di s come sci (de)ragliante. SCEI andato al mare? No, sei andato a valle. Ah ah.

In fondo sono irresistibile, infatti talmente non resisto a me stesso che non esisto. Eppur non esito…

E fra un’inculata pazzesca e una botta dritta me ne fotto.

Sono un uomo difficile più dei dolly di Brian. Però quante dolls! A te questa vita dolse? A me non duole, lei ne vuole. E “alto” vola”.

 

 

di Stefano Falotico

Hikikomori, gli autoreclusi sono un fenomeno in espansione anche da noi


26 Feb

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Da Wikipedia:

Hikikomori (引きこもり o 引き籠もり letteralmente “stare in disparte, isolarsi”, dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi”) è un termine giapponese usato per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento. Tali scelte sono causate da fattori personali e sociali di varia natura.

 

Non c’è da stupirsi se anche in Italia questo “fenomeno”, anzi, questa generazione di “fenomeni” si st(i)a espandendo a macchia d’olio. Sempre più giovani, e non solo minorenni, e lì la scelta sarebbe più comprensibile perché rapportabile all’adolescenza, periodo difficilissimo e problematico per eccellenza, si stanno allontanando dal mondo di tutti i giorni, e si rifugiano in casa, passando tutte le loro giornate in rete e sovvertendo i “normali” cicli vitali, scambiando la notte per il dì e vivendo al di fuori delle regole sociali. Insomma, si creano, come si suol dire, il loro mondo.

E in merito avrei da raccontarvene donde. E anche di “onte” e calunnie…

Quello che stupisce di questi ragazzi è che, a differenza di quello che si possa credere, sono molto più “collegati”, interconnessi con la vita di quanto invece lo siano, spesso, i cosiddetti adulti, troppo indaffarati e “impicciati”, come dicono loro, con quotidianità squallide, fatte di un lavoretto tristissimo per tirare a campare, mogli che tradiscono con le puttane sui viali, e figli da “educare” a base di calci in culo, disfunzionali istruzioni per l’uso ed etiche alquanto distorte su cosa sia l’esistenza. Poi, non “sbigottiamoci” se i giovani, appunto, decidono di far la fine di Napoleone a Sant’Elena ancor prima di aver “governato” anche solo la paghetta settimanale.

Sì, in Italia il fenomeno è in aumento. Tutto ciò è allarmante? Potrebbe essere, ma anche no.

L’altra sera, volevo amabilmente conversare con una bella guagliona, al che, dopo un lungo corteggiamento degno del Casanova più sfrontato ma, appunto, ottimamente educato, azzardai nel chiederle se voleva incontrarmi. Lei, di tutto piglio, mi rispose che, sì, era sabato sera, ma sarebbe rimasta in casa a rivedere le repliche di Hazzard, e poi voleva giocare alla Playstation. Sì, ma non stiamo parlando di una ragazzina, bensì di una procace donna fatta in tutto e per tutto, di gambe parecchio “spronanti all’azione”, molto colta, peraltro, assolutamente piacente e affascinante.

Poi, telefonai a un mio amico chiedendogli se voleva andare al cinema a vedere l’ultima interpretazione di Day-Lewis, ma mi rispose che doveva vedere Mute su Netflix. E ammutolì ogni mia fantasia amicale, rendendomi un blade runner delle nostre solitudini incomprese, forse anche in compresse. Sì, perché la società induce a deprimersi, al che gli psicologi impazzano, facendo ancor più impazzire, essendo strizzacervelli e “cagacazzi”, i ragazzi (in)sensibili, e sedandoli “sensibilmente”, intontendo le loro vivacità troppo “pronunciate”, e il panorama offerto alle nuove generazioni è desolante. Per quanto tempo potremo sopportare un mondo in cui la maggiore notizia del giorno è se Gigi Buffon giocherà ancora delle partite in nazionale, se una coppia di Uomini & Donne ha inscenato un finto amore sulla melodia de Il Volo, per quanto tempo potremo ascoltare il festival della canzone italiana e non vomitare di disgusto?

Al che, le opzioni per i giovani non sono molte. La scuola è piena di bulletti stronzissimi, di bimbette che deridono la loro “acerba” sessualità, e li prendono per il culo per le loro umanissime imbranataggini. Nei bar ci sono i vecchietti che giocano a carte e ogni due minuti vanno a fare un po’ di “acqua” nella toilette, e poi hanno lo sturbo se entra un’impiegata in calze a rete, “sollecitando” erezioni faticose ma ancor “virilmente” arzille. Poi urlano ai ragazzi “senz’arte né parte” di andar a lavorare, quando il loro lavoro era mietere il grano e aspettare il gallo alle sei di mattina, con la moglie che ancor ronfava nel letto, letto sudicio e porco in cui la sera prima ci avevano “dato” fra scoregge, orgasmi con le mani ancor zozze dell’olio dell’insalata e una gallina che entrava nella loro camera, “sbirciando” la copulazione saporita come un brodino di cappone. E nacquero dunque figli che dovevano “laurearsi” per non farli accapponare nel disonore…

Accendi la tv e c’è Barbara D’Urso che, dopo esser stata molto “gentile” con Berlusconi, cioè dopo che da Silvio si fece sfondare, sfondò, e ospita in studio Gentiloni in mezzo ai suoi drammoni e finti lacrimoni. Anche tette rifattissime.

Mentre la Gruber è da museo delle cere, i 5 Stelle promettono sussidi ma non hanno mai aperto uno scolastico sussidiario.

Come la vedi?

E perché questi ragazzi “senz’anima” amano le anime, nel senso di cartoni giapponesi?

Facciamo cin cin!

DONNIE BRASCO, Al Pacino, 1997, © TriStar

DONNIE BRASCO, Al Pacino, 1997, © TriStar

 

 

di Stefano Falotico

Genius-Pop

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