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Memories Look at Us: Dedo


19 Sep

Per gentile concessione di Spaggy, il giornalista Pietro Cerniglia, posto questo “copia-incolla” del suo sentito, commovente “Forza, Dedo“, utente di FilmTv.it.

Personalmente, mi è difficile iniziare questa playlist. Il compito non mi è facile per una serie di motivi, primo tra tutti il rammarico per non aver trovato il tempo di portare a termine una promessa. Non sono bravo con le parole in certe circostanze e, quindi, vengo subito al dunque. Da un paio di giorni, qualcuno ha provveduto ad informarmi che le condizioni di salute di una presenza storica di questo sito non sono più ottimali e dopo una lunga e ponderata riflessione “siamo” arrivati alla conclusione che fosse giusto condividere con chi gli vuole bene un documento in mio possesso da tempo.

Non so quanti di voi lo ricorderanno ma la scorsa estate ho curato una rubrica su Cinerepublic che si chiamava “A nudo”, in cui alcuni utenti si sono prestati ad un gioco di scrittura e a un paio di botta e risposta, ora seri ora sul filo del divertimento (il caro Panflo, lassù dove si trova adesso, sa ad esempio quante camicie mi ha fatto sudare!) ma sempre sul filo della sincerità. Lasciata in asso, quella rubrica prevedeva un secondo ciclo che in realtà, per cause concomitanti, non è mai partito. Tra gli scritti allora raccolti, ce n’è uno a cui da subito avevo pensato di riservare un trattamento particolare. Si tratta dell’ “A nudo” di Dedo… di Goffredo, il “nonno” ufficiale del sito da sempre contraddistinto dalla garbata gentilezza e dall’assenza della sindrome da “primadonna”, quella che colpisce il 99% di noi.

Lungi dall’idea di realizzarne un coccodrillo, adesso è arrivato il momento di dare spazio a quelle parole. So che ci teneva a raccontarvi chi era e come aveva vissuto. Qui, su FilmTv, e non lì, su Cinerepublic, “troppo complicato da usare”. Mi farebbe piacere se Cristina, sua moglie, gli raccontasse che, in questi meandri di opinionisti e addict da playlist, ha un gruppo nutrito di amici che lo aspetta anche per un semplice “ciao”.
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Se fossi costretto a definirmi in poche parole direi che sono cocciuto. Combattivo, solitario, realista ed insofferente verso qualsiasi forma di autorità. Se dovessi dare di stura ai ricordi, non basterebbe un libro. Quindi mettermi a nudo (giratevi perché non offrirei un bello spettacolo), sarà estremamente difficile ed ovviamente limitato. Mi è stato riferito che nacqui un mezzogiorno, da una primipara, in casa di mia nonna e pesavo 5 kg. Mio padre, sottufficiale nel servizio della Sanità, era in Africa a “conquistare” l’Impero.

Ma i veri ricordi cominciano ad emergere da quando avevo quasi 5 anni. Mia madre ambiva farmi diventare un uomo di teatro e ricordo quanto mi disturbassero le sedute di recitazione (piccoli monologhi), l’obbligo di andare a letto il primo pomeriggio per essere sveglio la sera sul palco, le ore passate ad imparare a suonare il pianoforte ed i solfeggi effettuati in casa davanti ad uno spartito. Non me ne facevano passare una: quando arrivava mio padre e veniva messo al corrente che ne avevo combinata qualcuna, si toglieva la cinghia dai pantaloni e, per quanto scappassi, riuscivo a prendermi una bella dose di cinghiate. Potrà apparirvi strano ma non era il dolore ad inasprirmi, ma toccare la pelle arrossata e sollevata delle gambe. Non fatevi un’idea troppo severa del loro comportamento. Non me la sento neppure io di provare rancore. In fondo mio padre molte volte era gentile e non mascherava il suo orgoglio per il figlio primogenito. Ma gradualmente si infilò nella mia giovane testa la voglia di starmene il più lontano possibile e di cercare di non farsi notare.

Quando a Livorno (estate ‘40) si verificò il primo “leggero” bombardamento francese,  mio padre decise di far sfollare tutti noi in Sardegna, al centro dell’isola, dove vivevano i suoi fratelli e sorelle. Così, in un Settembre ventoso e piovoso del ‘42, partimmo per Civitavecchia ma, a causa del mare agitato, dovemmo pernottare. La sera prima dell’imbarco andammo a vedere La corona di ferro (allora mi fece impressione ma rivisto oggi l’entusiasmo provato si è  ridimenzionato). Ricordo ancora il viaggio: il traghetto era completamente oscurato e davanti navigava un cacciatorpediniere, grossa massa scura, con rotta a zig-zag.

La nuova permanenza non fu traumatica. Fra zii e cugini trovai una grande calore umano. In una regione rimasta indietro di qualche millennio, con servizi igienici allucinanti (le strade ricevevano a cielo aperto lo scorrimento delle acque nere), la vita era semplice. I miei compiti si limitavano ad andare a scuola, procurare la legna necessaria per gli usi di casa, contribuire a raccogliere erba edule per fare una minestra ed in seguito il latte per mia sorella (nata nel ’44), impresa difficile per la scarsità di distribuzione (file interminabili che con astuzia riuscivo a risalire per non arrivare a latte esaurito). In compenso ero libero, non più recitazione, solfeggio, lezioni di pianoforte. Potevo giocare con i coetanei ed attingere dalle loro biblioteche. In casa non c’ero mai. Mio padre, di stanza a Cagliari, lo vedevo raramente.

Era un paese strano: donne, quasi tutte col gozzo, vecchi affetti da tracoma, bambini e pochissimi uomini giovani, quasi tutti invalidi. La trebbiatura avveniva con metodi ancestrali, mediante una coppia di buoi con al seguito due grosse pietre di granito e il grano veniva ripulito dalla pula sollevandolo con le pale in alto e sfruttando l’azione del vento. I maggiori problemi derivavano dalla scarsità del cibo e dalla difficoltà nel trovare stoffa per farsi confezionare un abitino (un mio zio, ciabattino, riuscì a ricuperare un paio di scarpe da gettare e riciclarle in un soddisfacente paio di scarponcini). L’unica stoffa disponibile era lavorata a mano, di lana grezza, adatta per bisacce e per stendere sotto la sella degli asinelli. Mia madre mi ci fece un vestito per la cresima, che provocava un gran prurito, accoppiandolo ad un paio di zeppe femminili di sughero con laccetti di pelle di capra: come li odiavo, mi sentivo umiliato. Se vogliamo rimanere in campo cinematografico la mia infanzia ricorda molto quella di Antoine Doinel  ne I 400 colpi e in parte di Julien ne Gli anni in tasca, film che adoro.

Una mattina nell’estate ’43 fummo svegliati dal rumore di grossi automezzi (non ci eravamo abituati: in paese girava una sola auto). Erano i Tedeschi che stavano dirigendosi a nord per evacuare da un’isola strategicamente ininfluente. Il passaggio durò 48 ore e non ci furono violenze di alcun tipo. Durante la prima notte i soldati tedeschi furono distribuiti in varie abitazioni. A noi ne toccarono due. Erano giovani, con uno sguardo triste, Biascicando in italiano, ci chiesero il permesso di alloggio. Stavamo andando a cena e dividemmo con loro lo scarso mangiare ed essi divisero con noi la loro razione di pane scuro e di scatolette di carne. Vollero assolutamente dormire nel loro sacco a pelo in cucina e la mattina successiva erano già spariti, senza far rumore.

Ma di questo periodo potrei parlare per ore. Ho visto la Costa  Smeralda, priva di costruzioni e con i prati che s’infilavano nell’acqua di mare. Un trenino (tratta Chilivani – Macomer, cittadine non in India come potrebbe far pensare il loro nome)  che ricordava,  in peggio, quello  presente in C’era una volta il West, collegava il paese con il resto dell’isola. La locomotiva spesso si guastava durante il viaggio e i vagoni, semplici, provvisti di panche di legno ed olezzanti di odori di sigaro e pecorino, erano molto caratteristici. Comunque questa Sardegna, dagli abitanti orgogliosi ma gentili e laboriosi, negli aspetti più brutti non esiste più. Purtroppo ha perso molte belle tradizioni sia di ospitalità sia di confezionamento di prodotti tipici, specie alimentari.

Nel febbraio ’46, con un piccolo mercantile, mio padre mi riportò a Livorno. Fu un’avventura perché il mare era agitato e la nave non riuscì ad entrare nel porto di Civitavecchia. Portatasi a nord, sbarcammo, tramite trasbordo in barche, nel golfo di Talamone. Viaggio in treno disastroso (14 ore) per i numerosi tratti di ferrovia fuori uso a seguito dei bombardamenti. Dopo 3 anni e mezzo rividi i miei nonni materni e a loro fui affidato per proseguire la scuola media presso i Salesiani, unici a prendermi con l’anno scolastico così avanzato e localizzati abbastanza vicino a casa di mia nonna (ci rimasi sino alla fine del ginnasio). E poi era facile arrivare a scuola utilizzando i mezzi pubblici: bastava aggrapparsi ai contenitori avvolgifilo posti sul retro dei filobus. Fu un altro periodo di libertà. La mia casa era la strada, a contatto con coetanei e con i soldati americani di stanza in un campo recintato di fronte a casa mia. Alcuni erano gentili e sorridenti e, se anche ci scambiavamo poche parole, ci regalavano cioccolato e soprattutto qualche pagnotta di pan carrè, bianco, caldo e saporito, che ci scambiavamo fra tutti i compagni/amici che popolavano la strada. Eravamo soliti rifugiarci sopra i rami di grossi pitosfori che delimitavano il muro di una villa vicina. Le più belle letture le ho fatte su quei rami. Un coetaneo mi prestava opere di letteratura russa che, fra i rami, divoravo: non ne ero mai sazio.  Non mancavo mai di andare al cinema dell’oratorio a vedere soprattutto film di Tarzan o Western.

Nell’autunno la famiglia si riunì ma, essendo privi di abitazione, fummo ospitati dai nonni, confinati (5 persone) in una stanza. Non mi pesava perché stavo sempre fuori di casa e per studiare andavo in quella dei miei compagni di scuola. Il palazzo di mia nonna, vicino alla stazione, miracolosamente fu risparmiato dai bombardamenti: tre piani con scale ripide, buie (dopo aver visto La scala a chiocciola, salivo “molto” guardingo) e io stavo all’ultimo. Soffitta in comune con  gli altri inquilini e mia nonna depositaria della chiave. Ben presto cominciai ad aver bisogno di qualche soldarello che mi procuravo vendendo ai cenciai (robivecchi) tutto quello che vi era accumulato, senza badare a chi apparteneva. La vita da strada forgiò il mio carattere. Curioso e attento osservatore, imparai ad adattarmi alla solitudine, a fiutare aria di pericolo, a controllare il mio comportamento, a distinguere fra gli adulti quelli da scansare e quelli da rispettare, prestandomi a fare per loro piccole commissioni, a contare esclusivamente sulle mie forze e sulla astuzia che si andava affinando sempre di più, a combattere per farmi rispettare contro piccole bande di coetanei, ad osservare gli sforzi della gente comune per sopravvivere in un periodo in cui mancava di tutto.

Gli avvenimenti che più mi colpirono in quel periodo furono il referendum sulla permanenza o meno della monarchia, la tragica morte dei componenti la squadra del Torino, l’attentato a Togliatti. Per questo avvenimento si respirava in città una notevole elettricità. Fu la prima volta che ebbi una grande paura. A scuola feci amicizia con un compagno di classe possessore di tesserina di ingresso gratuito per due persone a gran parte delle sale cinematografiche cittadine. Entravamo al cinema alle 14 e, saltando da una sala all’altra, ne uscivamo verso le 20. L’estate, oltre che al mare, la passavo a pattinare (pattini a rotelle di legno) in un circolo della raffineria che si trova a Livorno. Pattinavo bene e venivo in contatto con molte ragazzine. Ma il vantaggio maggiore derivava dal fatto che il circolo confinava con un cinema all’aperto: bastava salire sopra un muro e ci si godevano tutti i film della stagione estiva. Ricordo di aver visto per molte sere di fila Sogni proibiti e successivamente L’uomo meraviglia con Danny Kaye.

Nel ’52 ci fu assegnata finalmente una casa popolare. Non avevamo riscaldamento, ma c’era tutto e, con mio fratello, ottenemmo una stanza ed un letto a testa (sino ad allora si dormiva insieme). Ci ho abitato sino a quando mi sono sposato. L’anno successivo, esame di Maturità Classica ed iscrizione alla Facoltà di Medicina a Pisa (avevo 18 anni ma ero un anno anticipato). Ormai ero sempre più libero, senza soldi, ma libero.
È il periodo in cui mi faccio dei veri amici con i quali sono tuttora in rapporto. Il primo lo conobbi al Liceo e mi introdusse nel gruppo di coetanei che frequentava. Stavamo sempre insieme e ne combinavamo di tutti i colori, quasi come in Amici miei, zingarate comprese. Spesso con rocambolesche camminate lungo un muretto fuori vista, con un gradino scivoloso a pelo d’acqua e sempre a rischio di cadere in mare, entravamo a sbafo alle feste estive che si tenevano ai Bagni Pancaldi, descritti da Virzì  ne La prima cosa bella.
Studiavo a casa del mio amico ed i suoi familiari ne erano ben felici perché ero uno capace di sgobbare sui libri e quindi  uno stimolo per il loro figlio. Furono loro a darmi il soprannome di Dedo. Fu un  periodo in cui riuscivo ad infilarmi, alla portoghese, in molti spettacoli che si davano in quel tempo. In uno di questi conobbi Ella Fitzgerald, ottenendone l’autografo (assieme a tutti i suonatori della sua équipe), che conservo ancora gelosamente.

Tramite uno della congrega dei miei amici, fidanzato con la figlia di un grosso produttore cinematografico, feci la conoscenza diretta di Franco Zeffirelli, le gemelle Kessler, Umberto Orsini, Bice Valori e Paolo Panelli, che gravitavano in vacanza a Castiglioncello.
È anche l’epoca dei viaggi (low, low cost): Spagna, dalle strade disastrose, in Lambretta, due volte in Danimarca (per avere il passaporto falsificai un documento). È bello essere liberi, ma è difficoltoso vivere senza disponibilità economiche. La mattina alle 7 partivo per Pisa con 25 Lire (un pacchetto di sigarette Nazionali costava 160 Lire) e con queste ci dovevo vivere tutto il giorno, dato che tornavo attorno alle 19. Assieme ad un amico e compagno di studi arrivavamo a Pisa presto ed avevamo il tempo  di sederci qualche minuto sul marciapiede del ponte di Solferino. Preceduto da una discreta salita era uno dei punti di passaggio delle operaie della Marzotto che andavano al lavoro in bicicletta. Con la salita non potevano abbandonare il manubrio ed erano costrette a lasciare che le gonne risalissero. Era uno spettacolo vedere tante gambe femminili (tipo L’uomo che amava le donne) e si cominciava la pesante giornata di lezioni molto rilassati.

Spensieratezza, voglia di vivere e di scherzare con tutti e su tutto. Come ho passato gli anni di Università credo che proprio non interessi a nessuno perché comune a troppi giovani che sono stati nelle mie condizioni ed hanno avuto le stesse esperienze e difficoltà economiche.
Alla fine del ’62 ebbi la mia seconda grande paura: scoppiò la crisi dei missili a Cuba  (Thirteen Days) e la possibilità di essere spedito d’urgenza al fronte (ma quale sarebbe stato?), in quanto sottotenente medico, mi ossessionò per tredici giorni.

Il ’64 fu un anno memorabile. In Agosto assieme a tre amici facemmo uno straordinario viaggio in auto sino a Capo Nord. Paesaggi, esperienze, conoscenze bellissime ed ancora ben impresse nella memoria. Prima di partire, all’inizio della estate, conobbi una ragazza, affascinante, con i capelli morbidi, lunghi sino alla vita, gentile, ma riservata che, invece di far parte della movida sui bagni, scartavetrava la vernice da una piccola lancia di legno e questo mi colpì moltissimo… Alla fine dell’anno, dopo una corte assidua, “mi ci” fidanzai e l’anno successivo la sposai e misi su famiglia. Ero cosciente che avrei dovuto operare un ridimensionamento della mia libertà, ma l’accettai di buon grado. Ero innamorato e mi sentivo completo in sua compagnia, e confesso che col tempo l’amore si è rafforzato. Oggi non saprei neppure immaginare la possibilità di vivere senza di Lei. Donna dolce e gentile, intelligente, dal carattere ferreo (origine tedesca),  mi sopporta da 46 anni. Oltre che moglie, è la mia consigliera, amica, capace di mettere un freno alla mia esuberanza quando supera i limiti, in grado di vivere con parsimonia,  eccezionalmente portata nell’allevare ed educare due meravigliose figlie ed attualmente… anche badante.

Chiudo con i ricordi non senza accennare ad una mia peculiarità, ormai persa. Dopo cena mi addormentavo prepotentemente e lo facevo nei posti più impensati. In viaggio di nozze la giovane moglie si spaventò molto perché non mi trovava più: mi ero addormentato sotto la doccia. Ma mi sono addormentato anche guidando motorscooters (dovevo viaggiare a torso nudo e cantare), in piedi in ascensore, pedalando in bicicletta, su un terrazzo sotto una nevicata, camminando e leggendo a voce alta mentre cercavo di studiare.

Rimasi militare per sette anni, poi entrai a lavorare in ospedale. Per necessità di carriera (e la prospettiva di un guadagno migliore) nel ’74 emigrai nel “mitico” Nord. In pensione dal ’94, ho potuto goderla per pochi anni. Dal ’99  malattie di ogni specie mi hanno reso la vita difficile. L’anno scorso mi è caduto il mondo addosso: sono emiplegico, scarsamente autosufficiente.
Mi scuso per aver riportato troppe date, ma queste sono indispensabili per inquadrare il mio passato nel periodo storico attraversato dalla nostra Nazione e fornire un quadro preciso a quanti sono nati dopo il ’60 o erano troppo piccoli negli anni precedenti.

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CARTA D’IDENTITA’
Nome: Goffredo
Cognome: Mameli
Data di nascita: 28 (vera), 30 (ufficiale) Agosto 1935
Occhi: verdi
Altezza: 1,65 (un tappo, ma non ho complessi e non porto scarpe dalla suola e tacchi “rinforzati”)
Segni particolari: evidente funzionamento del 25% dei neuroni originari

Risparmiatevi le battute sul mio nome. Ne ho sentite di tutti i colori ogni volta che vengo in contatto con estranei. Non sono “Suo” parente. Il cognome è tipicamente sardo: basta entrare in una chiesa locale e leggere la lapide dei caduti in guerra: ci troverai molti Mameli.

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