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Cinematographe, a differenza di molti criticuzzi-(im)piegati, plaude Joy, e io, con gioia, la copio-incollo e forse con la Lawrence copulo


27 Jan

Cinematographe che dice? Dice il vero.

Joy, ultima fatica registica di David O. Russell, è una favola moderna alla quale si sovrappone con decoro e maestria la lastra decadente e antropologicamente rappresentativa della soap opera. La pellicola in bianco e nero trasmessa attraverso lo schermo di un vecchio televisore bacia ripetutamente i colori sgargianti del film, creando un parallelismo inizialmente confuso e inquietante, che mette al centro la natura e la volontà delle donne, anche se fosse più opportuno dire della donna, l’unica diva attorno alla quale ruota la pellicola: Jennifer Lawrence, perfettamente calatasi nei panni di una donna matura, indubbiamente sfigata ma fortemente intenzionata a ribaltare la sua vita.

Come in American Hustle e Il lato positivo, anche in Joy Russell fa dei rapporti famigliari il perno centrale attorno al quale si srotola l’azione. Un mucchio di parenti stravaganti che convive ad alternanza sotto lo stesso tetto, scambiandosi cattiverie, frustrazioni e gioie; una famiglia allargata, in cui la confusione regna sovrana per riversarsi esclusivamente sulle spalle della protagonista.

Joy: la Cenerentola contemporanea alla quale non serve un principe, ma un mocio che si strizza da solo!

La vita di Joy viene raccontata dall’amorevole voce della nonna Mimi (Diane Ladd), la quale ci spiega con parole semplici ma efficaci l’excursus della nipote che, proprio come una Cenerentola contemporanea, ha una sorellastra (Peggy, interpretata da Elisabeth Röhm) che non fa altro che metterle i bastoni tra le ruote, una madre che passa il tempo appollaiata sul letto a vedere la tv e un padre amorevole quanto egoista, Rudy, interpretato da un fantastico Robert De Niro, che in questa pellicola veste appieno i panni dello sciupa femmine.
Nei ricordi sbiaditi quanto martellanti dell’infanzia Peggy sogna un uomo, mentre Joy sogna di inventare, di affermarsi nel mondo esclusivamente con la bellezza del suo ingegno. Ce la farà?

Si innescano frettolosamente i rami arcuati della drammaticità e dell’infelicità, quella che attraversa la vita di chiunque, ma che in questa pellicola permea con complicazione l’intera trama: ogni scelta diventa difficile e asfissiante, ogni tentativo di emergere sembra inutile, soprattutto se i tuoi cari si appendono all’orlo della gonna come pesi di piombo per evitarti di spiccare il volo.
Ma Joy è un osso duro, chiede senza esitazione, si fa strada in un mondo fatto di uomini – sintetizzati tutti nel volto di Bradley Cooper alias Neil Walker – per lanciare sul mercato la sua invenzione: il Miracle Mop, ossia il mocio.
E non sarà per niente facile convincere Trudy (Isabella Rossellini), la nuova compagna del padre, a investire sul suo progetto, a convincere chi le sta accanto che può farcela. Ma gli unici che la sostengono sono l’ex marito e la sua migliore amica. Suvvia, siamo davvero sicuri che una donna riesca nell’impresa? Tolti i fronzoli della commedia a tratti drammatica Joy Mangano, la casalinga newyorkese laureata in economia aziendale col pallino per le invenzioni (alla quale è ispirato il film), ce l’ha fatta davvero e dopo il mocio ha inventato tante altre cose, come “le stampelle ricoperte di velluto per armadi più ordinati”; ha lanciato un nuovo modo di imporsi sul mercato, un modo più autentico, più diretto e ha cambiato il suo destino.

La personalità della protagonista si staglia sullo schermo luminoso del cinema grazie a quello stesso contesto che vorrebbe tenerla con i piedi per terra. Niente campo e controcampo allora, ma inquadrature in cui tutti i personaggi si ritrovano affollati insieme, costretti a comunicare e a scontrarsi; ognuno con la propria bolla fragile di egoismo, pronta a frantumarsi e a ferire chi sta intorno, liberando l’odore accattivante ma per certi versi malsano di una sceneggiatura che sta in piedi più per i suoi attori che per la volontà di raccontare una storia.

Esattamente come in una soap opera – che appare al momento giusto a scandire la sceneggiatura, trasferendosi dalla tv al nostro schermo cinematografico –  David O. Russell crea delle caricature della realtà, ogni personaggio vive in un mondo a sè; è rafforzato dai dettagli del suo carattere, dall’autorevolezza della voce, dei gesti e dalla confusione che tutt’intorno riesce a creare; è stimolato da una macchina da presa capace di compiere movimenti impeccabili e inquadrature artistiche teatrali, provviste di colori pastello che tanto ci fanno ricordare certe opere di Jack Vettriano, certo assopite da quell’eros che in quei casi ci sconvolge, sostituito però dalla luminosità caotica di Guttuso.
Private comunque della scia immortale concessa all’arte, le immagini di Joy vivono solo nell’attimo in cui le vediamo, poi spariscono travolte dagli eventi e di esse rimane l’alone di Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Bradley Cooper, Edgar Ramirez, Isabella Rossellini, Diane Ladd e Virginia Madsen.

Ancora una volta Russell ci sorprende con una pellicola che sa tenere incollati alla sedia, sa far commuovere, soffrire e attivare l’invincibilità affascinante del “volere è potere”. Una pellicola che in parte delude per la ridondanza delle argomentazioni e che si poggia esclusivamente sulla prestanza recitativa della Lawrence, ma che non può non piacere, non farci rendere conto di quanto sia reale e assurdamente teatrale quello che vediamo al cinema: la famiglia dipinta come un’ancora, un filo al quale siamo indissolubilmente legati, che non abbiamo scelto ma ci appartiene, nella buona e nella cattiva sorte.

La colonna sonora provvede a ricamare il resto di questa storia tutta al femminile, che i fan della Lawrence non potranno non apprezzare, mentre quelli di Russell forse rimarranno delusi.

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