Posts Tagged ‘12 anni schiavo’

Nella vi(s)ta siate “not perfect”, usate l’imperfetto in ogni ver(b)o del vivere, e ambite a essere personaggi scorsesiani


22 Nov

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Vi ricordate quel gioco fenomenale degli anni novanta? Street Fighter? I bar ne erano pieni mentre i paninari, così venivano definiti i tamarri dell’epoca, le loro panze si riempivano a base di birre rancide come il lor alito puzzante di aglio. Uomini non alti ma che sapevano districarsi col joystickmeglio di una pornostar col dildo. Poi sarebbero arrivate le belle ma troppo pure canzoni di Dido. Ebbene, rammenterete anche, cari uomini alla Tarantino, memori delle nostre pulp fiction, che si sceglieva un “eroe” e ce le si suonava di santa ragione. Se finivi, stravincendo, l’incontro massacrando il tuo nemico senza farti neppure sfiorare, ecco che compariva, di vocina robotica, la scritta perfect, pronunciata in modo alla francese, o à la, pourfiect… Sì, quelle piccole sale giochi nei cantucci di baracchine ove le ragazzine leccavano gelati al limone, sognando in cuor loro di sverginarsi con questi maniaci… delle antiche playstation, erano stracolme di giochini sparatutto e soprattutto di tali divertimenti a base di tenzoni, di sfide senza esclusione di colpi alla Bloodsport. E i giovinastri, anche i più sgraziati e nerd, si proiettavano in queste marziali piroette, immaginando sconfinatamente di essere come muscles from Bruxelles, Jean-Claude Van Damme, uno dei più grandi deficienti della storia dell’umanità a cui però dobbiamo rendere merito per averci fatto entusiasmare con spaccate, jet sinistri e calci “a tuffo” in volo carpiato su ganci ambidestri subito dopo la mossa della gru di Ralph Macchio in Karate Kid. Molti di questi giovani adesso sono quarantenni con moglie obesa a carico e un figlio menomato per colpa delle botte in testa dei loro stes(s)i padri sciagurati, pessimi educatori ma rimasti “ottimi” pugilatori “virtuali”, ché (nel senso di perché ma va bene anche che senza accento) scaricano le loro ire represse sull’innocente che frigna perché ha un padre, appunto-“a pugni”, che passa le serate ancora al bar a giocare però alla slotmachine della sua cassaintegrazione e alla testa di cazzo dell’equo canone dell’essere cane. Una vita che, fra l’altro, fra un digestivo e l’altro, soffre l’amaro zuccherato da qualche “cameriera” dei viali, che li “serve” affinché possano “st(r)appare” di “spumante” con tanto di “scontrino fiscale”.

Eh sì. Quasi quasi rimpiangiamo gli edonistici, superficiali, banalotti e scioccherelli anni ottanta in cui Jamie Lee Curtis esibiva le sue forme ginniche (che poi avrebbe ripreso nel magnifico spogliarello di True Lies) assieme a quello stravolto del Travolta. Perfect, appunto, cagata immonda da ricordare soltanto per la scena “scult” dell’amplesso aerobico e per una Curtis, appunto, che onestamente sa(peva) pompare il muscolo per cui le donne c’invidiano. Quella donna vibrava nell’aria e talmente “spingeva” che avremmo preferito esser nati evirati, piuttosto che impazzire strabuzzati, contenendoci di ormoni al “bilanciere”.

Insomma, non siate perfetti. Non serve a niente. Mangiate di gusto, ubriacatevi senza compostezza, e siate oggi Travis Bickle e domani Pupkin, quindi dei “pazzi” alla Cristo de L’ultima tentazione…, comprenderete, come Edward Daniels di Shutter Island, che da anni a questa parte avete perso il cervello ma volerete… come sani uccelli.

 

E ricordate: il Genius, che sono io, sembra che abbia una faccia da prendere a schiaffi, a cui la gente, se non si darà una mossa, continuerà a dare calci nel culo, ma sa… sa tutto.
Altro che game over.23795524_10155796361043608_2555010944535332969_n

di Stefano Falotico

12 anni schiavo, la recensione di facciadibronzo.net, gestito da due idioti, come potrete capire, leggendo


22 Feb

Ho trovato, nel net, una recensione idiota di 12 anni schiavo.

Vi posto un estratto, che vi farà molto incazzare, come è giusto che sia.

“Voglio una vita esagerata, voglio una vita come Steve McQueen,” cantava Vasco, e sappiamo che non si riferiva al regista di questo film. Non solo perché al momento esiste un solo Steve McQueen che possa dirsi iconico nella storia dell’umanità, e non solo perché l’altro Steve McQueen all’epoca della canzone era solo un ragazzino, ma anche perché questo 12 Years A Slave di “esagerato” non ha molto.

Se volete ammazzare il cosiddetto recensore, replicate qui.

C’è un’immagine che mi sono fatto e che ogni tanto mi torna in mente. L’immagine è quella di una porta chiusa, la porta della stanza che contiene soggetti e sceneggiature pensati apposta per concorrere agli Oscar e, in questa stanza, 12 anni schiavo non ci starebbe male. Realizzare questi film significa aumentare di molto le proprie chance di partecipare e vincere, e allora ecco che tutti saltano a bordo volentieri, per un formidabile gioco di squadra che potrebbe migliorare la vita di parecchie persone. Nove nomination, e chissà che non ci scappi anche qualche statuetta il prossimo 2 marzo.

“Voglio una vita esagerata, voglio una vita come Steve McQueen,” cantava Vasco, e sappiamo che non si riferiva al regista di questo film. Non solo perché al momento esiste un solo Steve McQueen che possa dirsi iconico nella storia dell’umanità, e non solo perché l’altro Steve McQueen all’epoca della canzone era solo un ragazzino, ma anche perché questo 12 Years A Slave di “esagerato” non ha molto. Per molti il primo accostamento logico è sicuramente Django Unchained (quello sì esagerato, anche se vacuo), per via del tema della schiavitù dei neri in America, ma in realtà i due film non c’entrano quasi nulla l’uno con l’altro. Molto più vicino se mai è Schindler’s List, come meccanismo narrativo. Benché calato in un contesto storico e geografico molto differente, 12 anni schiavo sfrutta le stesse leve.

E, seppure tecnicamente ben realizzato e coinvolgente a un livello viscerale ed emotivo, complice anche l’ennesimo girotondo sonoro di Hans Zimmer, di questo schema di gioco si finisce per abusare con troppa facilità. Una condizione crudele mostrata con dovizia di particolari, un cattivo monodimensionale, collerico, schizzato e demenziale che polarizzi tutto l’odio e lo sdegno del pubblico fin dal primo battito di ciglia (là era Ralph Fiennes, qui Michael Fassbender, terzo giro di bevute per lui e McQueen), e il ritmo cadenzato dagli scoppi di collera e relative frustate e altre torture assortite. Ci sono anche un paio di riprese statiche e lunghissime sul protagonista, Chiwetel Ejiofor, di quelle pretenziose al punto giusto.

Non c’è da stupirsi quindi se, con queste premesse, il film funziona, ma non va molto oltre. Anzi, funziona proprio come effetto della poetica senza sfumature di cui è irradiato, dell’immediatezza e rozzezza della scrittura, dell’esibizionismo gratuito della violenza. Non un lavoro di fino, anche se qualcuno potrà obiettare che un tema brutale vuole una rappresentazione altrettanto brutale, ravvisando in questa equazione un picco di mirabile autorialità. Buon per loro, io rimango scettico di fronte alla monotonia e alla prevedibilità conclamate, ma ancora più scettico davanti allo stuolo di riconoscimenti che potrebbero derivarne, anche se a queste cose ormai dovremmo essere avvezzi da anni.

Per mia fortuna, i discorsi sui premi e i festival li valuto meno di zero quando si tratta di capire la reale qualità di un’opera, sono solo considerazioni di circostanza, più attinenti alla percezione della gente e alle dinamiche dell’industria, che alle volte il divertimento passa anche per la statistica. Al netto di tutto ciò, faccio fatica a immaginare che il film di McQueen possa resistere nel tempo e nella memoria molto a lungo, ma magari mi sbaglio.

 

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