…ho capito che essere troppo normale significava essere trattato da pazzo, anzi, da idiota.
Non so se abbiate mai visto il film Sfida senza regole, traduzione del tutto italiota che fa riferimento al sottotitolo sempre sbrigativamente appioppato dai titolisti nostrani assai cialtroni a Heat di Michael Mann, ove assistemmo all’epico confronto-scontro fra i cinematografici titani Al Pacino e Robert De Niro, oggi rispettivamente Jimmy Hoffa e Frank Sheeran in The Irishman.
A me raramente sfugge qualcosa. Io adorai e adoro, sin dalla primissima adolescenza questi due mostri sacri, icone leggendarie che hanno illuminato d’incandescenza solare le mie interminabili notti adolescenziali molto solitarie.
Poiché, alla pari di Neil McCauley/De Niro di Heat, sono un solitario ma non sono solo come Arthur Fleck/Joker, neppure come Travis Bickle di Taxi Driver.
Sebbene vada fiero della mia giammai rinnegata melanconia. Dalla gente ipocrita, ridanciana, carnascialesca e ruffiana come il pappone Sport/Keitel dell’appena succitata pellicola scorsesiana, non The Irishman, bensì per l’appunto Taxi Driver, non so che farmene e probabilmente non avrei mai dovuto sfortunatamente incontrarla. Dovevo immediatamente ripudiarla, anziché incasinarmi nell’ostinarmi a fornire a essa una spiegazione dei miei mentali corridoi meandrici. Anziché svergognatamente spellare i miei pudori, svelare tutto il mio segreto e forse segregato candore, disancorandomi dalla mia innata natura primigenia assai prelibata della mia emozionale alterità fulgida, comunque ancora immacolata, fortissimamente immutata e dunque non da questa debosciata gente corrotta e traviata.
Risplendo a tutt’oggi del mio genetico, suadente nitore e non voglio più far ammenda alcuna delle mie profonde, sacre emozioni. Anche perché fui estremamente equivocato quando, impudicamente, esternai senza nessun pavore le mie intime sensazioni, le mie ritrosie e le mie sane paure. Cosicché, non in pochi addussero, quando con furore e intrepido altrui agghiacciato stupore, sbudellai le mie interiora, che fossi matto e un ragazzo malcresciuto, soltanto mantenuto, che doveva quanto prima tornare sui propri passi, riconoscere sinceramente e immantinente i suoi errori per evitare l’inevitabile orrore a cui tali impostori credettero che sarei andato incontro se non avessi subito fatto dietrofront per salvare l’onore.
Pensarono banalmente che fossi il classico ragazzo disadattato e interrotto. Perciò, in tanti evocarono, diciamo, qualche malattia non solo del fisico e del cuore, oscurandomi nella coltre delle loro tremende reprimende e seppellendomi infimamente da infami con la crudeltà più mostruosa nello spettro delle loro patetiche, oscene calunnie e supposizioni.
Ancora oggi tali ottusi, ostinatamente caparbi a proteggere l’indifendibile lor arroganza, credono che io viva murato vivo in una stanza. Perimetrato nello spaesamento d’una cameretta ermetica in cui pensano che deliri, continuando ad amare scioccamente, infantilmente Robert De Niro.
Sì, De Niro mi piace irrimediabilmente ancora, nonostante non sia più oggettivamente, anagraficamente e forse persino qualitativamente quello d’una volta.
Forse tutto questo è iniziato con un tizio di nome Charles Randall.
Sì, queste son pressappoco le testuali parole che il detective David Fisk, incarnato da un Pacino in viso scarno, recita a inizio film.
Invece, questo delirio di molte persone su di me, un delirio da maniaci quasi assassini delle dignità del prossimo loro, in tal caso il sottoscritto, quando ebbe inizio?
Forse quando, nauseato dai miei coetanei, frivoli, stupidamente gaudenti e scioccamente ricattati da genitori castratori che li volevano solo dottori, trascurando invece i loro spontanei amori, le loro vive pulsioni e le loro più vere azioni, mi dissociai da tutto questo deprimente fetore.
E fui etichettato come ragazzo malato di qualche psicopatologica afflizione.
Si tirò in ballo la fobia sociale, la timidezza clinicamente pericolosa, ah ah, la schizofrenia psicotica mascherata dall’auto-inganno più atroce.
Ma, nel mentre gli ignoranti si fissarono su di me con boria discriminatoria da orripilanti untori, addirittura da fascisti punitori, io ancora perseverai con indomita, apparente idiozia, a inseguire la mia vi(t)a con sacrosanto menefreghismo da uomo di valore. Anche se, talvolta, giustamente onanista di sobrio fervore.
Voi, per esempio, non sospettereste mai che sono un collezionista non solo dei film con De Niro e Pacino ma di tutti i film, non propriamente da Oscar, di Naughty America?
Fate molto male.
Poiché io sono grande conoscitore del Cinema più alto, poetico e altolocato ma non sono certamente un eremita nel cervello toccato. Bensì una volpe che conosce le cosce molto toccabili.
Odio i luoghi comuni. In Italia s’è campato per anni dietro le più bigotte superstizioni.
Come quella secondo la quale chi si tocca o è un coglione oppure diverrà presto cieco in quanto poco figlio di puttana e bugiardo marpione.
Come quella secondo cui chi è il male di sé stesso pianga sé stesso.
La gente si riempie la bocca della parola dignità.
Secondo la Treccani online, la dignità è:
la condizione di nobiltà ontologica e morale in cui l’uomo è posto dalla sua natura umana, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e che egli deve a sé stesso. La d. piena e non graduabile di ogni essere umano (il suum di ciascuno), ossia il valore che ogni uomo possiede per il semplice fatto di essere uomo e di esistere è ciò che qualifica la persona, individuo unico e irripetibile. Il valore dell’esistenza individuale è dunque l’autentico fondamento della d. umana. Ora, secondo le teorie freudiane, la struttura psichica di ogni essere umano sarebbe composta fra L’Es, l’Io e il Super-io.
E se invece uno volesse precocemente fare Hermann Hesse? Cioè volesse mandare a fare in culo praticamente ogni religione, ogni inibizione, ogni sovrastruttura data per incontrovertibile e assoluta? Cosa succederebbe?
Diverrebbe pericoloso come Charles Randall o Joker?
No, non credo proprio.
In questi anni, amici o (a)nemici, ho visto tanti ragazzi farsi fregare dalle istituzioni. Ragazzi che, crollati a pezzi, si son dati da soli la patente di pazzi. Recandosi da qualche psichiatra per ricevere l’antipatica ma soprattutto anticipata pensione. Sì, un alibi del cazzo per rinunciare alla personale rivoluzione, per non preoccuparsi più del proprio disagio e poter vivere (in)felici, facendo dolceamara colazione.
È un pessimo modo per mentire al mondo, nascondendosi dietro la mancanza di reazione.
Poiché, andando a dire al prossimo che siete malati, invero solamente ipocondriaci, avete orribilmente accettato il fatto che potreste anche avere il talento di un bravissimo sceneggiatore ma, non conoscendo nessuno a Hollywood, non vincerete mai l’Oscar.
Dunque, avete rinunciato ai vostri sogni.
Vedete, il Festival di Roma si divide in due categorie.
Fra chi è invitato come le vallette e i televisivi presentatori, coloro a cui il Cinema interessa assai poco, personaggini squallidi in cerca solo d’esibizionismo per elemosinare, in ogni sen(s)o, un po’ di approvazione e calore, e chi invece è Stefano Falotico.
Un uomo che, senz’alcuna remora, ancora profuma del suo delicato odore.
Se questo vi fa schifo, su Rai Uno c’è Carlo Conti.
– Guarda, Stefano, che Sfida senza regole è un brutto film. L’ha dichiarato lo stesso De Niro in una recente intervista.
– Sì, forse è sbagliato. Bob però non ha dichiarato che ha accettato di girarlo per soldi ma soprattutto per palpare il seno di Carla Gugino?
– Ah, quindi secondo te ha girato Manuale d’am3re solo perché De Laurentiis l’ha riempito d’oro e lui ha potuto toccare le bocce di Monica Bellucci?
– No, secondo te è perché in colonna sonora c’era Morgan?
– In effetti…
di Stefano Falotico
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