Pezzo poetico a sublimazione dell’aver esperito l’esistenza in ogni tosta resistenza e l’amore vero in ogni sua sublime essenza
Be’, di me tutto si può dire tranne che non sia un coraggioso. Talmente coraggioso da essere avventato. Ma so quando osare, quando spingere…
Molti anni or sono, nella landa desolata di Bologna, in questa felsinea città medioevale, vili assalitori attentarono alla mia purezza e al mio romanticismo innato, istigandomi a gesti scriteriati per colpa del loro bacato affronto smodato. Costernato, compresi che, se avessi dato retta alle maldicenze ostinate, presto sarei stato spacciato.
Allora montai sul mio cavallo, anzi, sulla sella mio unicorno e, al pari dell’intrepido Costner di Balla coi lupi, per impedire che s’incancrenisse la sparatoria alla mia anima in trincea, andai all’arrembaggio. Senza più alcuna codardia da baggiano.
Mi deportarono in una zona di confino. In una tundra piena di selvaggi e di uomini dalla scarsa erudizione. Ah, maledizione, tutto a causa di quella bollente rabbia poco da me controllata, di quella mia alzata di testa sconsiderata, di quell’indomabile eruzione rovente d’ira sconveniente ed esagerata.
Ma non tutto il male, come si suol dire, vien per nuocere. Conobbi ragazze dei fiori e c’odorammo in amori anche vicino al forno, nei giacigli segreti dei nostri istinti lupeschi, modellandoci, avvolti assieme, come argilla del tornio. Mangiando le noci, le castagne, le pesche e riscaldandoci in notti di plenilunio bianchissimo come le loro pelli morbidissime.
Fu dura, ragazzi. Amore ma anche immane dolore. E avvennero cavalcate persino ai confini della follia in tramonti rocciosamente ancorati al mio inespugnabile cuore per non morire di mancanza d’ardore. Ma, per fortuna, ringrazio oggi il mio fervore. Porgo, con tanto di riverenza e personale genuflessione, un grazie potente perfino ai miei deliri mistici coi quali sublimai le mille agonie di strazianti notti, senza luna piena, solo in bianco. E ora, ancor indomito, granitico e funambolico, sono il cowboy più eroico di questo mondo stupido e laido. Che io piglio al lazo e, da cavallerizzo, vi saltello dentro come carne alla brace cotta in un ruvido saloon di mie mille ansietà scoppiettanti. Non più m’arrabbio però se qualcuno, con insinuazioni screanzate, testardo vuole ledere il mio cuore e far sì che possa nuovamente dolermi nel rinunciare al mio dannato volere. Lontano da ogni fetore.
Detto ciò, Kevin Costner mi assomiglia. Un uomo che non può fare il professore. Si annoierebbe a morte dietro retoriche sinistroidi nell’ammaestrare allievi che tanto non puoi raddrizzare neppure se volessi. Un uomo che non puoi ficcare nemmeno in un ufficio con dei fessi. Perché la sua anima è viva, si sguinzaglia nel vento, fuma nelle umide sere il respiro dei suoi polmoni infuocati e ardenti. Affacciandosi dal terrazzo alle prime ore del mattino per assistere, sconsolato, a tanto umano scontento.
Ah, grigi uomini infedeli, scorati e fetenti. Siete gente infelice che crede di vivere, invece non sente più niente.
E volo nella fantasia più bella del tempo infinito, costellato da cieli nitidi, turgidi, magnifici. Illuminati da raggi solari fulgidissimi, non più ipocondriaci.
Insomma, miei mandriani e mandrilli, aspettiamo C’era una volta… a Hollywood e The Irishman. E viviamo nel frattempo, anche nei frutteti, tutti più felici e contenti.
Amici, dinanzi a me Dante Alighieri arrossisce, una bella donna si arrostisce e Ludovico Ariosto faccio arrosto in quanto sono un poeta rustico.
Rinascendo in men che non si dica.
Applauso.
Sì, voi mi fissate negli occhi ma io guardo altrove.
Mirando impavidi orizzonti stupendi in ogni dove.
Forza, al galoppo!
Vi saranno altre aurore e altre alcove.
di Stefano Falotico
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