Sì, secondo la versione cinematografica del libro di Umberto Eco, il nome della rosa altri non è che il nome della fanciulla ignota.
Questa è la versione data dagli sceneggiatori dell’opera di Annaud con Sean Connery.
Eco invece aveva scelto questo titolo, assolutamente metaforico, per rimandare a citazioni medioevali di varia natura, non solo femminile.
Ebbene, stavo pensando di scrivere un bestseller intitolato Il nome del rosso. Storia di scaramanzie, di sceme zie, di nonnetti cattivi.
Sì, molte oscurantistiche superstizioni popolari hanno sempre sostenuto che uomini come il sottoscritto, ovvero coi capelli rossicci, fossero persone altamente instabili caratterialmente. Facili alla pazzia, indotte geneticamente di DNA dal bulbo color vermiglio, appunto, a cader vittima di strani, indecifrabili squilibri mentali.
E a quei tempi, tempi ove regnavano i sovrani assolutisti ma soprattutto imperava l’ignoranza più brada, a quest’assurda diceria molta gente, bigotta e sprovveduta, dava stupida udienza, come si suol dire.
Non solo le donne nubili venivano arse vive perché accusate di stregoneria. Anche gli uomini che, per questioni ereditarie di livello cromosomico, non si attenevano ai canoni, diciamo, ariani, venivano bruciati nei forni crematori. No, non quelli di Auschwitz, quelli del pregiudizio e del chiacchiericcio discriminatorio partorito dalla malattia mentale delle persone deficienti.
Sì, se fossi nato in quell’era cupissima e folle, avrebbero bussato a casa mia dei gendarmi con tanto di tonache nere, mi avrebbero imbavagliato e, ammanettandomi dopo sevizie e torture fisiche di proporzioni inaudite, mi avrebbero trascinato al cospetto di un inquisitore fuori di testa.
Che, dall’alto della sua maligna idiozia, ah, il Maligno in confronto a costui è un angelo buonissimo, mi avrebbe prescritto prima la gattabuia, una cella d’isolamento senza pane e acqua. Dunque, dopo avermi disidratato e lasciato stremante solo come un povero cristo a cui sol urla e gemiti spaventosi mi sarebbero rimasti per difendermi dall’oscena persecuzione, mi avrebbe condotto sulla cima di una collina arida. Inaridendomi del tutto, ah ah.
Impalandomi fra rossissime fiamme voraci che avrebbero essiccato ogni altro residuo grido di rabbia focosa.
Purtroppo, no, nessuno ancora fortunatamente mi ha esposto, bruciante, ah ah, al pubblico ludibrio della gogna d’un popolo inferocito assalito dalla più purpurea cattiveria immonda. Ma molti si dovrebbero ugualmente vergognare.
Sì, molti episodi d’ignoranza parimenti, se non superiori a quella da me ivi descrittavi, nella mia vita mi son successi. Perché, nonostante siamo nel nuovo millennio, gli artisti, le menti vivamente fervide e gli spiriti liberi, ancora son guardati con malocchio, eh eh, da questi esorcisti probabilmente soltanto della loro diabolica demenza. E allora può succedere che, per emanciparsi da tutta una serie di madornali, orrendi equivoci scatenati da quest’orda di uomini bacchettoni, di donne, queste sì, stregonesche con le loro invidie a pelle, ah ah, col loro bigottismo figlio della loro cultura puritana da moraliste frustrate, per sconfiggere questi mangiapreti e Mangiafuoco così presuntuosi e untori della giovinezza altrui da lor lordata con malevolenza sfacciata, con farisea lor mente assai bacata, devi far capire a questi qua (a chi sennò?) che le tue sono scelte assennate, non da asino, e che non sei affatto un semi-eunuco monacale come Venanzio de Il nome della rosa. Libro che verte sulla liceità del riso e la commedia allegra di Aristotele che spesso veniva fraintesa e tradotta come schizofrenia pericolosa dalla derisione sciocca poc’anzi illustratavi.
Bensì, sei Aristoteles. Sì, il “nero” Urs Althaus de L’allenatore nel pallone.
FAGLI UN CULO così!, urlava Lino Banfi.
E il fuoriclasse, dribblando con classe immensa ogni trappola ricattatoria, ogni altro giochino di scarso fair–play, ogni altro sgambetto e, come si suol dire, bastone fra le ruote e bestioni stupidi, ora festeggia il trionfo.
Mentre gli stronzi son rimasti all’asciutto. E sanno solo continuare a offendere per difendersi dalla figura di merda. Davvero brutta.
Perché Aristoteles si è dimostrato più veloce anche con le palle, che campione di razza, sì, di razza, Aristotele era un geniale pensatore e ogni idiota, ogni tonto e ottuso l’ha preso finalmente in quel posto, ogni cosa gli si è ritorta contro ed è chiarissimo che era solamente un panzone dagli evidentissimi, lapalissiani torti e dalla bile stomachevole da vecchio arrogantone molto (s)porco.
E questo è tutto.
Ammazza, questi bastardi son stati proprio distrutti.
E se la sono andata a cercare.
Arriva sempre un punto ove devi dire basta ai bastardi e zittirli una volta per tutte. Anzi, uno alla volta.
di Stefano Falotico
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