Sì, nella vita di tutti i giorni, sono l’attore peggiore che si sia mai visto nella storia.
A volte, anzi spesso, le circostanze esistenziali ci obbligano a recitare una parte. A fingere spudoratamente. Perché, se dicessimo la verità, chi ci vuole bene entrerebbe in apprensione e io non voglio allarmare nessuno. Dunque, mento e mento ancora mentre la mia mente sta vivendo, può essere, degli stati di demenza o soltanto, probabilmente, di profonda acquiescenza. E il mio sguardo si perde nel vuoto più abissale e insondabile anche se davanti a me compare una figa colossale.
Sì, in certi momenti, voglio starmene per i cazzi miei. E oscuro dalla mia vista perfino le cose e le cosce piacevoli. Sterilizzando le mie iridi a espressione acquosa di un apparente io deficiente e armonioso. Invero, nelle intimità inaudite della mia anima sgualcita, ribollono pensieri cupissimi. Quasi suicidari. Pensieri di uno che pare abbia avuto una vita secolare e invece è ancora uno scolaro.
Sì, io ho molto d’apprendere. Non si finisce mai d’imparare anche quando credi di aver capito tutto e non sai prepararti neanche un panino. Ah sì, miei panini, farcitevi da soli, non ho tempo da sprecare nell’affettare il prosciutto, oggi voglio essere affettato e non posso perder attimi preziosi ché desidero affrettarmi per mangiar una buona patatina. Succosa, con tanto di salsa, ah, senti come si sgranocchia questa gnocca fra i miei denti e, sulla sua lingua abbrustolente, ausculta nel cuor succhiato le profumate sue papille gustative, poi si posa con letizia tutta la sporcizia… sì, un rimestamento schifosissimo di salivazioni puzzolentissime, nonostante il dentifricio, questa sua bocca carnosa quasi quasi mi rende un vegetariano e non voglio più mescere la purezza del mio alito nella gola del suo fetido smalto.
Che cazzo significa? Significa.
A parte la tal parentesi agra, agreste, silvestre e di orgasmi poco celesti, sì, sono un attore pessimo.
Un libro aperto. Posso simulare uno sguardo da monaco tibetano ma si vede lontano un miglio che la mia anima è funestata da preoccupazioni trivellanti ogni mia budella spappolata.
Oppure, rido fintamente euforico quando invero, amici, mi sento talmente triste che potrebbero usarmi a Viareggio come carro allegorico, sì, una maschera carnascialesca da uomo la cui parola preferita è malinconia. Con tanto di occhio pittato e la gocciolina nera simil Il corvo.
Un uomo zombi imbattibile, una sfinge lacrimosa eppur ingenuamente cremosa. Le donne mi guardano, s’inteneriscono e, mosse a compassione, desiderano che sia loro passionale, ché mi strugga nelle lor roventi coscione dopo tanta smodata, dolorosa alienazione e, nelle lor gambe ruggenti, mi devasti per orgasmi distruttivi e vulcanici in unte e congiuntesi esistenze prosciugate da sfinimenti resilienti a ogni dapprima piacere rinnegato, esistenze amareggiate che, in un frangente di cazzuta solidità, si compenetrino d’infiammata vacuità empatica, ma io mi sciolgo solo nel leccare un altro ghiacciolo. Quando delicatamente suggo ogni colorante di tanto gelo refrigerato e poi nella mia pancia riscaldato.
Sì, molte donne mi cercano, tumefatte dal mio viso angelicamente diabolico ma me ne sbatto Le riempio di complimenti per dar loro cinque minuti d’illusoria, masturbatoria felicità, eppur sostanzialmente me ne fotto.
E, sopra il ramo di un albero, con la gamba accavallata, suono la chitarra mentre un uccello, lindo e puro, sorvola le mie ansie e mi caga in testa.
Sì, anche in questo caso faccio buon viso a cattiva sorte.
Dicono che le cagate portino fortuna e, se mi avete letto fin qui, questa è una cagata che spacca il culo.
Fidatevi.
di Stefano Falotico
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