Ebbene, non mi finirò mai di stupirmi della prevedibilità insopportabile della gente. Sino all’altro ieri, Sam Rockwell era un nome che diceva poco o nulla a molti, perfino ai cinefili più accaniti e maniacali. Che semmai lo ricordavano per la sua prova esuberante e ambigua in Confessioni di una mente pericolosa, perché segnò l’esordio registico di Clooney, per essere stato “il genio della truffa” di Matchstick Men, con l’unico Nicolas Cage amabile degli ultimi vent’anni, per essere stato il figlio sfigato di De Niro nel discutibilissimo remake di Stanno tutti bene, per essere stato allu(ci)nato uomo perso in Moon, e qua e là una macchietta buffa e stravagante in tante altre pellicole, più o meno dimenticabili, di cassetta usa e getta.
Ecco che all’improvviso con la sua performance in Tre manifestti… diventa un attore “cult”. E già se ne scrivono monografie e si allestiscono premature, imbarazzanti agiografie sulla sua carriera, definendolo geniale, inconfondibile, lunatico, appunto, uno dei volti irrinunciabili del Cinema degli anni a venire. Sì, perché potete scommetterci, non viviamo più in un’epoca in cui il Timothy Hutton di turno, premio Oscar come non protagonista per Gente comune, lentamente sparisce nell’anonimato o viene relegato in film insignificanti che semmai neanche gli americani vedono. Adesso, la statuetta del nostro zio Oscar garantisce, a meno che la persona premiata non venga colta da pazzia, da insanabile depressione, a meno che da solo non si butti via, affogando nell’alcol, nella droga e altri “problemi” di sorta, a meno che per “indisposizione” non sia lui ad allontanarsi dal grande schermo, ecco, garantisce ripeto uno status pressoché intoccabile, che permetterà a Rockwell di essere bombardato di richieste lavorative in film che, posso giurarvi, saranno di medio-alto profilo. E, chissà, potrebbe fra un po’ anche salire al trono nella categoria di Miglior Attore Protagonista.
Il solito gioco occidentale delle maschere. Insomma, prima dell’Oscar questo qui se lo cagavano in pochi, adesso è diventato un grande. Indiscutibile!
Stessa sorte, anche se in termini diversi e più stratificati, toccò a McConaughey. Da tutti, oramai, veniva considerato solo un bel faccino con un prestante corpicino ridottosi a girare commediole scipite, poi arrivò la McConaissance, e nel giro di una manciata d’interpretazioni fortissime e folgoranti ribaltò ogni cattivo pronostico, affermandosi come attore amatissimo anche dai più severi critici. Aspettando, dopo i recenti, mezzi passi falsi, le sue prove in Serenity, White Boy Rick e Moondog.
Sì, l’Occidente basa le fortune altrui sul caso, sulle circostanze favorevoli, come si suol dire, sui giri della ruota nella giostra dei desideri. C’è chi accetta questo gioco abbastanza squallido, pusillanime e falsissimamente meritocratico, e chi abbandona ogni sfilata e carro. Si dice che chi lo faccia sia comunista. Non so. So che c’è gente con tre lauree che si trova disoccupata, e invece un ragazzotto ignorantone, che scoprì le sue doti in mezzo alle gambe, è diventato miliardario, scopando da mattina a sera, senza mai aprire un libro in vita sua. C’è uno che si chiama Justin Bieber che ha fatto sfracelli con un paio di canzonette per ragazzine brufolose e ora, dopo un paio di canzoni belline e orecchiabili, è preso sul serio anche dai “musicologi” più in vista. E guadagna più soldi di venti generazioni “normali” messe assieme.
Sì, la vita nell’Occidente è spesso questione di culo. Di sfacciate, alchemiche combinazioni “vincenti”.
Non c’entra quasi mai la vera bravura, il vero talento, non c’entrano le reali abilità.
C’entra il gioco di dadi. Se a questo si abbinano professionalità e un pizzico di dedizione, ecco che sbanchi…
di Stefano Falotico
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