Oggi pomeriggio, ero seduto in macchina fra gli “ospiti”, cioè sul sedile dei passeggeri, e mi stavo recando a un bar “raffinato” per bere un caffè pomeridiano senza dare nell’occhio. Eppur il mio occhio indiscreto, memore di quello di Pesci, fotografò una vetrina su cui passo “di striscio” ogni giorno. Come potete vedere dalla foto scattata di semaforo rosso che mi permise d’inquadrare il marciapiede “ruvido”, frastagliato, oserei dire, insudiciato, in un’inquadratura asciutta ma sghemba che catturò il bidoncino dell’immondizia “ben” intonato a un quadro bellamente esposto di panorama forse caprese, quasi campestre, forse di costiera amalfitana, rustico come lo sono le trattorie marinaresche nel tramonto dei nostri sogni perduti, quando lì gozzovigliamo come goodfellas, sentendoci come fossimo da mammà.
Sì, un attimo inequivocabile di poesia in immagini, dunque immaginativa, ah ah, pittoresca. Quindi, a pochi metri da là, ecco il bar, gestito da una famiglia cinese da Anno del dragone. Quasi nessun cliente, d’altronde l’ora era moscia, ma d’improvviso ecco entrare una coppia che non ti aspetti. Un giovinastro ben pasciuto, di stazza, dimensioni simili a quelle di Meat Loaf in Fight Club, che s’accompagnava con la madre, decrepita e molto più bassa di lui di statura. In maniera ancora furtiva, mentre delicatamente mi scolai tutto l’aroma zuccherato mescolato all’umore marrone del mio essere uomo deliziosamente cremoso e umorale, ch’eppur screma ciò che non piace alle sue pa(pi)lle gustative, li osservai. E ne rimasi incantato, sì, mi mossero alla commozione in un istante d’inusitata tenerezza, perché questo ragazzone mi stupì per la maniera estremamente gentile, sinceramente affettuosa, quasi infantilmente creaturale, con cui porse alla madre, vecchia e forse malata, la bevanda che per lei aveva ordinato. Pagai, e uscii con far felpato, con gli occhi inumiditi da tanta morbidezza, da tanta purezza, da tanta cauta dolcezza.
Sì, la poesia nasce da piccolissimi gesti. Quindi, riappropriatomi del mio “abitacolo”, osservai il cielo nuvoloso che, scivolosamente precoce nell’imbrunire, si stava squagliando in poetica celestialità d’un Sole scioltamente sbiadito. E, nel viaggiare vellutato, il mio animo fu pervaso da una restaurata lietezza, una ritrovata armonia di gioia e letizia, di pace col mondo. Al che, ecco balzarmi alla mente il volto di Willem Dafoe, un viso scolpito nel marmo, amato da tutti i più grandi registi del mondo. Sì, vi basterà scorrere la sua filmografia per accorgervi che pochissimi possono tenergli testa in merito a collaborazioni autoriali di rilievo assoluto. Dalla Bigelow a Scorsese, da Walter Hill a William Friedkin, da David Lynch a David Cronenberg, da Wes Anderson a Wim Wenders, da Spike Lee ad Abel Ferrara, e tantissimi altri. E sarà presto van Gogh per l’impressionista Schnabel, e ciò apre la porta dell’eternità… del mio cuore molte volte inariditosi, spentosi, così adesso vividamente colorato in schizzi meravigliosi d’un florido risveglio.
Sì, Dafoe è un attore che artisticamente mi assomiglia. Spigoloso a e nei tratti, camaleontico, spaventosamente sé stesso anche quando fa la parte del gonzo per un film di Paul Schrader, ghignante, metafisico, oggi villain e domani villano, buono e tenero, duro e merdoso, quindi dentro la Colagrande nel suo “villeggiare” di orgasmi strani e di rizzo, enfiato glande. Qui non sono poeta ma indubbiamente un po’ “piccante”. Ah ah.
Così, tornai indietro e mi recai in quel negozio di cornici. Il quadro da me fotografato costava troppo ma io capisco l’Arte. Come Joe Pesci. Lo sai che mi piace? Un cane va da una parte e l’altro da quell’altra… e quello sta dicendo… ma che volete da me?
Giunsi finalmente di nuovo a casa. E aprii le notifiche di Facebook. Una donna mi aveva scritto che voleva che la fotografassi ignuda in maniera gratuita, senza darmi una lira e senza darmela. Una bella fregatura. Così, la mandai a fanculo e andai a leggere un libro di Charles Dickens.
di Stefano Falotico
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