Ebbene, come i veri cinefili sapranno, fra pochi giorni uscirà il trailer del nuovo film di Clint Eastwood, un uomo che alla soglia dei novant’anni è in piena attività e non smette di stupirci col suo Cinema classico, improntato a storie realisticamente poetiche, spesso criticato, soprattutto in passato, di essere un “fascista” quando poi invece si scoprì che non era fascismo reazionario il suo ma solo la poetica battagliera, spesso intransigente, personalissima di autore micidialmente splendido.
Ecco, più guardo i film di Eastwood e più ne rimango affascinato. Pur respingendo alcuni suoi film, ritengo che praticamente tutto ciò che ha realizzato negli ultimi trent’anni sia degno dei più sperticati elogi. Anzi, non solo… credo fermamente che cosiddette opere considerate minori come Mezzanotte nel giardino del bene e del male, Fino a prova contraria o il magnifico Debito di sangue siano altresì, e non vogliono sentire “scusanti” o ragioni, dei capolavori assoluti.
Prendiamo proprio Blood Work, con l’inseguimento al cardiopalma, infartuato (sì, questa parola esiste e ricordatela quando, se avrete un infarto, potrete poi dire ai vostri amici che vi “infartuaste”, anche se loro, essendo romantici, vorrebbero che nonostante il colpo al cuore voi ancora v’infatuaste per una donna in cui “trapiantarvi”, ah ah) dell’incipit straordinario, talmente “ingenuo” da commuovere… ah, la commozione cerebrale… ah ah, sì, il Cinema di Eastwood desta in noi sentimenti di sentito affetto tale da farci piangere di entusiasmo.
Ecco, Eastwood, potrei dire che mi appartiene “geneticamente”. E condivido quasi tutto del suo Cinema, fiero, secco, senza retorica, puro, cristallino come un bacio in bocca al giorno triste quando la nebbia dei pensieri si accavallano e ci fanno gustare male un cappuccino perché abbiamo troppe “brioche” nel non essere propensi alla cremosità verso un modo angosciante che screma la realtà fra buoni e cattivi, fra cornuti e cornetti. Ah ah.
Invece, il signor Federico Fellini non l’ho mai amato né credo che, nonostante provi ostinatamente a farmelo piacere perché piace quasi a tutti, mai e poi mi piacerà. Ieri, su Facebook scrissi che Roma è una cagata pazzesca. E, come volevasi dimostrare, fui coperto dei peggiori insulti, attaccato persino sul personale. Sì, la gente contro di me inveì, nello sfogo di tutte le parole più vergognose che si possano rivolgere a un Falotico che dice, umilmente, la sua.
Sebbene abbia ricevuto, va detto, anche apprezzamenti, per questa mia uscita “blasfema”, da parte di gente che l’ha sempre pensata come me ma non ha mai osato dirla… per la paura appunto di essere vilipesa e derisa. Sì, qualcuno si è complimentato col mio coraggio, addivenendo con me che Fellini è un regista enormemente sopravvalutato, figlio, nel male più che nel bene, della sua epoca, schiavo di un provincialismo da cui non si è mai staccato perché “non gliela faceva” ad andare oltre un Cinema “paesano”, folcloristico, ossessionato dalle sue nostalgie giovanili, afflitto dalle sue donne grasse e volgarone, un Cinema perfino “caciarone”, solipsisticamente delirante nel senso peggiore del termine, che infatti tanto “eccita” la moltitudine dei suoi estremi ammiratori proprio perché ritrae, a mio avviso, non me ne vogliate… la mentalità “italica” e borghese per eccellenza di una italianità che ama vedersi dipinta come in effetti è, e s’imbroda nel guardare l’ombelico delle sue rozze limitatezze. Un Cinema fatto di “amarcord”, di ricordi “caserecci” misti al goliardico compiacersi del godereccio anche triviale, un Cinema persino “televisivo”, di luci del varietà e pagliacci di scena, un Cinema superficialmente sociologico che va sempre bene quando appunto i tuttologi della mutua di oggi vogliono pontificare sulla società, allorché citano La dolce vita e poi I vitelloni, per far della sociologia spicciola sulla Roma “bene” e poi sui bamboccioni irredenti di un’Italia che non è cambiata, nonostante non creda più al Duce e nemmeno tanto al Papa…
Il Cinema è la prospettiva di uno sguardo, e lo sguardo di Fellini proprio non si sposa col mio, questo matrimonio non s’ha da fare, non c’è un cazz’ da fa’.
A tal proposito, La voce di New York, a proposito del progetto Ferrari con De Niro scrisse le testuali parole…
È “Ferrari”, opera cinematografica sulla vita di Enzo Ferrari, creatore e anima della leggendaria Ferrari, prodotta da Gianni Bozzacchi, nome nuovo per le nostre orecchie, bene così: la speranza, che sul piano dell’intuito, del “naso” del cronista, riteniamo fondata, è che Bozzacchi s’imponga come un caposcuola, caposcuola di una generazione di produttori i quali detestino il “facile”, lo scontato, il convenzionale: vale a dire tutta la retorica dell’antiretorica firmata fratelli Taviani, Lizzani, Monicelli; tutta l’oleografia firmata Salvatores, Tornatore, Fellini: sì, Fellini, avete capito bene, care lettrici e cari lettori, il sopravalutatissimo regista romagnolo, capostipite d’una schiera di registi e aspiranti-registi incapaci come lui di cogliere il vero aspetto epico della natura umana, del carattere italiano; cantori d’una miseria raccontata malissimo, affronto alla miseria stessa e quindi all’oggettività sociale e morale; presi da una malsana attrazione verso il brutto, verso l’orrido, il nauseante. Lontani anni-luce dal realismo inglese degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, e dal cinema sociale americano…
Non c’è ancora il regista. De Niro punterebbe su Clint Eastwood. Idea brillante, questa, non c’è che dire. Eastwood è forse il regista americano più versatile, il più preparato, quello fornito d’un pensiero, di un’indole cosmopoliti; persona di eccellente cultura, tanto da rifiutare d’indossare i panni dell’intellettuale di professione il quale passa la vita a fingere modestia e umiltà quando invece rappresenta l’esatto contrario e riesce a imbrogliare un mucchio di gente e a riscuotere il plauso di quelli fatti della sua stessa pasta, insapore, stracotta…
Un film che ci voleva davvero. Una grossa, forte idea dinanzi alla quale dovrà pur rimpicciolire certo cinema italiano che si perde con gusto malsano nella politicizzazione della Storia, mostra un’assai morbosa attrazione verso i peggiori istinti umani, soffre tuttora d’un provincialismo di cui non sa, o forse nemmeno vuole, liberarsi.
Orson Welles sosteneva che Lo sceicco bianco e I vitelloni sono infatti i film migliori di Fellini, proprio perché dichiaratamente provinciali. Sinceri nel loro messaggio, mentre il resto della filmografia, a suo avviso, è stata la patetica ricerca di un provinciale di diventare qualcos’altro.
Come dargli torto?
Potete anche lapidarmi, ma sono su Fellini lapidario.
Ma quale Fellini e donne felliniane, siate felini e non siate ragionieri come Filini.
E smettetela di mangiare tortellini col prosciutto di Parma.
E poi preferirò sempre gli spaghetti western alla pubblicità della Barilla sui rigatoni. Ah, Federico, ma quanto ti pagarono per quella stronzata di spot?
E poi dovevi fare più sport.
Sei stato sempre un regista di panza, in ogni senso, a differenza di Eastwood che più invecchia e più è meno magna magna.
di Stefano Falotico
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