Allibito, noto che qualcuno spia il mio profilo Facebook e si è risentito che abbia scritto che ognuno, anche da “profano”, in un mondo libero e democratico, deve poter parlare di Cinema anche se non ha il pezzo di carta che “attesti” la sua “conoscenza” in materia. Come se il Cinema lo volessimo poi ridurre a tristi manualetti “pedagogici” e “istruttivi” su un’Arte maestosa che è la pura espressione della poetica di mille e più sguardi, un’Arte suprema che non conosce regole e non può essere ascritta a questi squallidi “indici” di “cultura”. Ove la parola cultura puzza di retrogrado accademismo, di sapientona, cattedratica scuola d’infanti così affamati di celluloide tanto da poi voler giocare alle bieche classificazioni, alle etichettature più didattiche. Come se il sapere consistesse davvero nell’elenco pedissequo di nozioncine teoriche inutili che con la bellezza, il sacrificio della pratica hanno poco a che vedere. E, peraltro, mi fa specie questo idealismo volgarmente sognatore che poco si cimenta con la realtà, ove realtà fa rima col sudore e il sangue dell’errare, dello sbattere la testa, del vivo e diretto confronto. Davvero certa gente, ah, povera illusa, crede che una laureetta al Dams possa dar loro l’accesso alla grandezza del Cinema, alle sue più pure, viscerali, eterogenee emozioni? Non è che, invece, come purtroppo accade in molti casi, coincide soltanto con una “gamma” informativa atta soltanto a istituzionalizzare il patrimonio sconfinato della cultura? Cultura non è una parola da vocabolario. Il vocabolario c’insegna straccamente che significa semplicemente “patrimonio” intellettuale, erudizione, che sa di vetusto e poco d’avanguardia, anche se poi annovera la “voce” esperienze spirituali. Ecco, è nell’anima della cultura che la cultura stessa si esprime, nella varietà della creazione, nel pindarico specchio immaginativo della fantasia più poetica, qualità superiori che non certo si apprendono da libretti noiosi e soporiferi. Ma io parlo al vento. Il Cinema l’ho amato nelle mie solitudini, quando diventava flusso cangevole e immensamente variegato delle emozioni fatte metafisica, quando i deliri in me regnavano sovrani e apprezzavo, così come ancor oggi eleggo in gloria, gente come Lynch che scardina(va) appunto le false regole di quest’Arte sinergica, lisergica e giammai scolasticamente letargica, per infondere cuore selvaggio alla natura affascinante del mio io imbizzarrito. Le strade perdute dell’infinitezza impalpabile, dello splendidamente seducente e ammaliante, trascendente e coloratamente onirico che si faceva cupezza, poi alata malinconia, quindi euforica vetustà. E il mio sguardo s’incendiava in questo lago di sogni però aderenti all’intima realtà che deflorava, “violentava”, esplorava. Oggi, invece, siamo ammorbati da gente che parla di Cinema come se fosse una fredda scienza, che gioca di voti e pagelle, che appiattisce il gusto nell’omologazione “culturale” che tanto mi spaventa.
La stessa gente che fraintende il senso della vita e dà alla vita un senso distorto, fatto di gerarchie, ove le persone sono numerini, in cui enumera il suo “sapere” attraverso sciocche, false credenziali.
Poi, tutti “sognano” e si divertono. Non si capisce cosa intendano per divertimento. Che per molti deficienti significa adeguarsi a un gruppo di stolti come loro, a un “credo” spesso ingenuamente giovanilistico, nell’accezione più patetica del termine, fatto di prese per il culo, sberleffi, provocazioni “imbevute” di chiacchiere da donnette e uscitelle nel pub a sfogar la noia di vite che, semmai, vanno al cinema e non capiscono un cazzo di quello che vedono, perché non sono senzienti del loro sincero inconscio, e si fuorviano e condizionano a vicenda in questo “termosifone” sempre mosciamente moderato, politicamente corretto, orrendamente “sano”.
La solita domanda che tutti mi fanno. Ma lei esattamente, con precisione, cosa vuole dalla vita? Se lo sapessi con “esattezza”, non continuerei a vivere.
di Stefano Falotico
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