Una recensione magnifica.
Non è un personaggio simpatico Norman Oppenheimer, il protagonista di L’incredibile vita di Norman. È appiccicaticcio, invadente, ai limiti dell’untuoso. Veste senza eleganza, con quella borsa sempre a tracolla, la coppola calcata in testa, la sciarpa a ripararlo dal freddo newyorkese. Anche i capelli sono troppo lunghi, lontani dai tagli alla moda. A noi italiani può ricordare certi personaggi di Sordi, con la loro contagiosa sgradevolezza, che ti fanno star male perché intuisci i loro errori, che stanno per ficcarsi in un pasticcio o in un vicolo senza uscita. E forse non è un caso che la strada che porta alla sinagoga dove ogni tanto si rifugia Norman assomiglia a un vicolo cieco… Curioso scegliere un personaggio così come eroe di un film, perché invece dell’empatia scatta la voglia di tenerlo a distanza. E all’inizio del film sembra quasi che la regia di Joseph Cedar si diverta a farci vedere solo le sue gaffe, i suoi vani sforzi, le mancanze di tatto e di sensibilità: l’approccio nel parco, disturbando chi sta facendo jogging; il pedinamento dell’uomo politico israeliano in missione newyorkese grazie al quale vorrebbe accreditarsi nel mondo della finanza ebrea; il disprezzo con cui viene allontanato da una cena dove ha cercato di intrufolarsi.
Che ci fa Richard Gere in un personaggio così? Eppure, dopo un po’ le cose cambiano, il film (e con lui il personaggio) prende un altro ritmo, la storia si fa più accattivante e L’incredibile vita di Norman svela quello che nascondeva: una riflessione senza infingimenti ma anche senza pregiudizi sul mito dell’«ebreo cortigiano», il suo bisogno di prodigarsi per gli altri perché così trova giustificazione ai propri occhi per la propria ambizione e la propria natura, vertiginoso aggiornamento del monologo shakespeariano («Sono un ebreo. Ma non ha occhi un ebreo? Non ha un ebreo mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni?» con tutto quel che segue) ai tempi della finanza e della politica. E la prova di Richard Gere cresce esponenzialmente, come quella di un piccolo, moderno Shylock, la cui tragicità non discenderà più dal confronto con la freddezza della giustizia o con la sete di vittoria (come invece fanno i suoi «nemici»), ma piuttosto dalla capacità di superare proprio quelle tentazioni con un gesto di generosità che fino a quel punto non avresti immaginato. Ancor più folgorante perché acceso da un inaspettato ribaltamento, capace di illuminare retrospettivamente e positivamente le tante ambiguità che si erano accumulate prima.
Non può essere un caso che il protagonista si chiami Oppenheimer come Joseph Süss, quell’ebreo Süss, che aveva catalizzato su di sé tutto l’antisemitismo possibile. Così come non è un caso che la storia, sceneggiata dallo stesso regista, si svolga per la maggior parte all’interno del mondo della borghesia ebraica newyorkese, concentrato quintessenziale delle aspirazioni che Norman insegue e che vedrà realizzarsi «troppo» tardi, dopo aver sopportato ogni tipo di umiliazione e di disprezzo. Perché la forza del film, e la sua giustificazione, è anche nell’aver evitato ogni possibile schematismo morale: chi sono i «nostri»? dove sta il «bene»? Il film evita persino di porsi la domanda, concedendosi solo un paio di privatissime confessioni sul bisogno di credere nella bontà delle persone, piccoli cedimenti segreti di cui in pubblico ci si potrebbe vergognare ma che nel silenzio di una camera d’albergo o in un’ultima telefonata possono trovare la forza di farsi sentire.
Per il suo primo film in lingua inglese, il regista Joseph Cedar (che è nato a New York ma è cresciuto a Gerusalemme e che fino a ora aveva girato solo in lingua ebraica) non ha voluto far sconti a nessuno, né al ricco mondo della finanza, né a quello non meno astioso della sinagoga né tanto meno a quello della politica (alcune scene si svolgono nella Knesset, a Gerusalemme). La storia, i personaggi gli servono per raccontare quel mondo identitario ma anche aspirazionale e insieme totalitario — l’universo dell’ebraitudine — che tutto pensano di conoscere e che forse nessuno, nemmeno gli stessi interessati, conoscono veramente e che l’«incredibile vita» di Norman racconta con sensibilità e originalità.
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