L’uomo in nero è un figo.
L’uomo nero è figo.
Due fighi – Matthew McConaughey e Idris Elba – non fanno un film.
Meno che mediocre: in The Dark Tower, l’unico aspetto realmente oscuro è come abbiano potuto i responsabili (quattro-sceneggiatori-quattro, produttori, regista) prendere dei personaggi così iconici e degli attori formidabili nonché globalmente stimati e trarne una robetta fantasy manco fosse un qualsiasi young adult o l’anonimo pilot di una serie tv per adolescenti.
Certo, la materia primaria kinghiana è incredibilmente complessa e voluminosa, sedimentata in anni di pubblicazioni e migliaia di parole e scene elaborate alla maniera del celeberrimo autore del Maine, ma una riduzione così povera in termini di realizzazione e di risultati è, al di là di tutto, semplicemente inaccettabile, inconcepibile.
Eppure l’hanno concepito: non occorre essere severi filologi della saga ideata da Stephen King – senz’altro sentitisi come minimo “traditi” se non più propriamente presi grandemente in giro – per capire la portata del fallimento.
Basta lasciare che i minuti scorrano, subire inermi la visione, cercare di intravedere in filigrana l’anima “western” (oibò!) rimanendo ineffabilmente perplessi, concentrarsi sulla storia e sulle dinamiche che, più che una torre, innalzano una torretta di sabbia che crolla alla prima pestata.
Il pistolero e l’Uomo in nero: ovvero il mitico, epico, storico scontro interdimensionale pluri-immaginato (tra illustrazioni, omaggi, riproduzioni, promesse) svuotato di forza, ridotto a mero effetto collaterale dell’ennesima versione del ragazzo-problematico-che ha perso il padre-con poteri speciali-che salva il mondo (i mondi).
Pfui. Cose viste e riviste e rigurgitate.
E raccontate male.
Il pasticcio narrativo – peraltro infornato in un assurdo minutaggio (un’ora e mezza: eh?!? Appunto, un modesto pilot) – rivela al suo informe interno carenze strutturali, semplicismi indigesti, ingredienti insalubri e una totale caoticità nella gestione degli elementi senza né le giuste dosi né il corretto equilibrio tra fluidità del racconto, istanze autoriali-letterarie e senso per lo spettacolo.
Senso che non c’è: l’azione è un riciclato concentrato di ralenty, passaggi enfatizzati (il dettaglio sull’abilità del pistolero nel caricare la pistola e nello sparare) ed altri concitati per coprire palesi mancanze tecniche (la sequenza finale tra il portale di New York e il Medio-Mondo, aperta da una sparatoria che pare un marginale residuo da Resident Evil o qualcosa del genere, e chiusa da un duello tra gli antagonisti banale e frettoloso).
Con effetti speciali senza infamia e senza lode (davvero non si poteva fare di meglio?), scenografie e design che non s’imprimono mai in mente, un registro sempre innocuo nonché prevedibile, l’immaginario povero e di riporto è una triste realtà.
Altro che incubi rivelatori, altro che magia e Torri mitiche al centro dell’Universo.
Cristallino pianetino-cinema mesto e dimenticabilissimo.
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