Archive for January, 2016
Joy recensione de Il Fatto Quotidiano
Questo è il FATTO!
Se c’è qualcuno, e qualcosa, che David O. Russell sa filmare è lo sguardo, le movenze, i tre quarti del corpo (dal primo piano al piano americano, non oltre), di Jennifer Lawrence. E se c’è un controcampo che gli riesce in subordine altrettanto bene è l’espressione catatonica, sorpresa, stupita di Bradley Cooper che osserva lei, e poi lei lui. Joy, infatti, sgomberato il campo dalle comparse, dai soggetti brulicanti sullo sfondo (Robert De Niro e Isabella Rossellini compresi), è questa linea direttrice che struttura il senso dell’intera opera. La self-made-woman (con fatica titanica) e l’affascinante mogul depositario del segreto del successo delle vendite televisive, l’ordinario che si sposa con lo straordinario, il cosiddetto sogno americano strabordante di citazioni sul cinema (il produttore di Via col Vento David O. Selznick che sposa Jennifer Jones) è la cifra filosofica tra il malinconico e l’ironico che Russell applica al caso di Joy Mangano, colei che nei primi anni novanta inventò il Miracle Mop, lo scopettone di plastica con lunghe spugne in cotone usabile senza doversi bagnare le mani per strizzarlo, e lo vendette sul canale QVC in solitaria vista l’ignoranza rispetto all’oggetto dei conduttori più esperti della rete tv.
La protagonista disegna, taglia, smartella, sgobba, lavora manualmente, sorbisce questo parentado invadente, sinistro e simpatico, sempre con il visino pulito della Lawrence, idealizzato nella sua dolce testardaggine, mai agiografico rispetto alla mitologia dell’uomo, pardon donna, qualunque che dall’anonimato si fa grande imprenditrice, anzi. David O. Russell inventa un espediente scenografico, o forse lo recupera da qualche racconto sugli studi tv dell’epoca, anche se oggi ci sono boss delle tv locali che lo spacciano come invenzione loro, che è quello del palco girevole circolare, magari suddiviso in due, tre o quattro set, sliding door pronto per roteare lentamente e mettere in scena un nuovo capitolo della quotidianità in cui si concretizza, grazie al proprio ingegno e alla propria determinazione, il successo personale ed economico.
Dall’altro lato, l’umanità che non reagisce che non osa che non ci prova mai, la generazione più anzianotta che dalla tv è rimasto infatuato dalla sua ipnotica e vacua finzione, la madre di Joy, anestetizzata dalle serie modello Falcon Crest, che rischia di diventare ascissa ed ordinata esistenziale anche per Joy. David O. Russell può così modellare la sua Giovanna d’Arco, vituperata e lesa nell’intimo, fregata e presa in giro dal prossimo, amata ma tanto sfiduciata dalla pletora di ex mariti, sorelle, genitori e nonne che le gravitano attorno, in un ritratto al femminile che rinuncia alla beatitudine astratta della purezza dell’anima, ma che a quella stessa purezza etica si rifà in chiave più materiale come fuga da un destino passivo e conformista. Un futuro conquistato con i denti e con la foga, da una donna, in un mondo di squali maschi. Nella splendida sequenza in cui Joy, dall’altra parte della barricata, modificata la sua classe socio-economica d’appartenenza, dà l’ok alla fanciulla con marito e neonato venuta a New York fin dal Sud per mostrarle il prototipo della spazzola pulisci vestiti da viaggio (quella rossa e bianca che abbiamo avuto tutti in casa o valigia), ecco che il disegno circolare del film si compie.
A differenza dell’ipertrofico, spaccone e dispersivo racconto di American Hustle, lo script di Russell ritrova la compattezza omogenea de Il lato positivo. La regia è dinamica, esplorativa, prossima ai corpi in scena, con la cinecamera in adorazione mai voyeuristica della Lawrence (bellissima donna di cui non vediamo mai dettagli fisici ma ne intuiamo il fascino proprio come un film anni cinquanta), e in sala montaggio si lavora di forbici per tagliare e ricomporre materiale tra una sequenza e l’altra in modo che il discorso non si perda mai in momenti di vuoto o noia. Infine come non amare questa miscela di brani che accompagnano simbioticamente la protagonista: The sidewinder del trombettista Lee Morgan, l’Elvis di A little less conversation, il tema di Vertigo di Bernard Herrmann, come i brani della serie tv di The good wife. Qui Russell ritrova la dimensione del patchwork senza capo né coda che l’ha caratterizzato fino ad oggi: passato e presente della visione (americana) tra cinema e tv, omaggio sensoriale ma mai citazione, impressione epidermica e mai devozione autoriale. Joy è un film che fila che è un piacere.
Robert De Niro and Chazz Palminteri Introduce Their Musical Adaptation of A Bronx Tale
The new show features music by Alan Menken and lyrics by Glenn Slater.
Robert De Niro and Chazz Palminteri have had a long history with A Bronx Tale, taking it from Palminteri’s autobiographical solo play to blockbuster film and now, lavish musical. The show’s world premiere, featuring codirection by four-time Tony winner Jerry Zaks and Oscar winner Robert De Niro, begins performances at Paper Mill Playhouse on February 4. With rehearsals in full swing, the creative team (which also includes Alan Menken and Glenn Slater) and cast (featuring Jason Gotay and Tony nominee Nick Cordero) took time to talk to TheaterMania about the exciting new production.
The Hateful Eight – Mereghetti e il suo Corriere stroncano Tarantino, delusione!
Ma che passa per la testa a Il Corriere?
Un western interminabile, lungo tre ore, in cui il regista americano concentra tutti i suoi vezzi: un catalogo delle sue ossessioni e manie, alla fine senza una vera ragione
No, The Hateful Eight non è un «grande» Tarantino, nonostante l’Ultra Panavision 70 (millimetri) e una durata che supera le tre ore. È un film molto «tarantiniano», dove ci sono tutti i suoi vezzi e le sue specificità, ma diversamente da altri suoi titoli quelle caratteristiche qui sono sprovviste di una qualche necessità e smascherano un vuoto (d’ispirazione?) che il gigantismo della produzione e dello schermo finisce per rendere letale.
Grazie a una simpatica e contagiosa invadenza, e a una conoscenza mirabolante del cinema di serie B, il regista ha saputo conquistare un posto di primo piano dentro un cinema che sembrava aver perso ogni bussola e che preferiva sottolineare i propri limiti invece che cercare di superarli. La citazione, il «plagio» sistematico non era più il debito che il cinema di oggi aveva con quello di ieri ma solo la confessione di una serie di guilty pleasure, l’elenco potenzialmente interminabile dei propri giochini preferiti. Con tre inevitabili conseguenze: a livello di «contenuto», la perdita di un qualche sguardo unificante (non si dice morale) capace di mettere in fila i diversi gradi di interpretazione e di senso; a livello di «forma», una centralità sempre maggiore data (o meglio: lasciata) ai dialoghi, gli unici capaci con qualche salto mortale di dare un ordine alle scene, che non rispondono più a una vera logica narrativa ma solo al proprio gusto della citazione o della sorpresa. E a livello di regia, il dover ogni volta accentuare la forza delle singole immagini per accecare lo spettatore e stordire la sua voglia di razionalità e di gusto.
Se questo modo di procedere era abbastanza evidente in Kill Bill e in Grindhousee meno in Bastardi senza gloria e Django Unchained, è perché la struttura di genere — il film di guerra e quello storico — aveva imposto a Tarantino dei «limiti» che in quest’ultimo western non ha voluto più rispettare. Troppo preoccupato (forse) di voler rimescolare le carte di un genere di cui ha sempre preferito gli epigoni «revisionisti», italiani in particolare, e troppo compiaciuto (sicuramente) della propria scrittura e del proprio gusto per le immagini iperrealiste, The Hateful Height è diventato un catalogo delle proprie manie e ossessioni, ma ha perso la forza che l’autentica messa in scena è capace di trasmettere alla macchina-cinema.
Una «perdita di senso» in cui non è estranea la scelta di girare (in pellicola) nel formato Ultra Panavision, quello che impone all’immagine una base di 2.76 volte più lunga dell’altezza. Il formato di Ben-Hur, di Gli ammutinati del Bounty e La battaglia dei giganti, film che hanno fatto delle riprese in esterno la loro carta vincente. In The Hateful Height invece Tarantino sfrutta molto poco l’immensità degli spazi del Wyoming per imprigionare i suoi protagonisti prima in una diligenza e poi in un emporio. La pellicola 70 mm (in Italia visibile solo in due locali, a Melzo e Bologna) restituisce una straordinaria profondità all’inquadratura ma quando serve solo per mostrare un occhio tumefatto, un paio di baffi molto folti o una chiostra di denti ultra bianchi, ti chiedi se non sei davanti a una montagna che ha partorito solo un topolino.
E così la storia di un cacciatore di taglie (Russell) che viaggia con la donna che deve consegnare alla giustizia (Jennifer Jason Leigh) e che durante una tempesta di neve accetta di dare un passaggio sulla propria diligenza a un altro bounty killer (Samuel L. Jackson) e a un sedicente sceriffo (Walton Goggins) ma poi è costretto a cercare riparo per la tormenta in un emporio dove lo attendono quattro persone — un ex generale sudista (Bruce Dern), un messicano (Demian Bichir), un boia (Tim Roth) e un misterioso cowboy (Michael Madsen) — diventa una versione verbosa e splatter dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie: chi non è quello che dichiara di essere e vuole solo impedire che la donna finisca sulla forca?
Per saperlo dovremo sorbirci tre ore di interminabili dialoghi, compiaciuti e francamente poco divertenti, dove l’unica cosa che interessa a Tarantino sembra la distruzione di ogni possibile mitologia, western o nordamericana fa poca differenza (ne fa le spese anche Abramo Lincoln). Ma senza un vero perché. E soprattutto senza un vero interesse.