Ebenezer Scrooge, già è (ri)cominciato Il cantico di Natale

27 Nov

di Stefano Falotico

Mi rispecchio e vedo sempre i miei warriors..., demoni insistenti che, danzando spettrali a mio malessere, m’assediano notturni in mio sonn(ambul)o eterno

Talvolta, “intavolo” me stesso, non so se nella Tavola Rotonda anche se, come Artù, estrassi la mia Excalibur, spada della mia roccia, tanto dura che mi sgretolai in una notte indigesta fra le indigene più amanti del Cinema indie, insomma, quell’harem di donne arabe che, però, non parlavano arabo ma volevano solo la Mokarabia del mio (s)cremarle, essendo io selettivo e ricercatore da Indiana Jones, “tendente” all’eunuco con schiuma di rabbia misogina, anche cremoso nella dolcezza (im)potente d’un uomo cazz(ut)o, viaggiante tra fantasie brade, spesso superomista come Conan il barbaro, alle volte noioso eppur, miei barbosi, ricordate di non toccarmi la barba, perché solo l’uomo barbuto può “raderle” di affascinante noia, da cui le mille e una notte.

Questa si chiama stronzata del Falotico, uomo “cespuglioso”, crepuscolare, pensatore libero se non me lo scassano, altrimenti “vengo” una rottura io stesso di palle e, da (im)pallin(at)o, una sex machine zuccherosa del “distribuirlo” automa(tico), “colante” cioccolato caldo sulle natiche e pertanto anche tè freddo di acidità (insosteni)bile, come dire “Ehi, donne, scioglietevi queste zolle da zoccole e digeritevelo senza poi chiedere il resto di getto(ne)”.

Invero, sì, “schizzo” ma spesso scherzo. Di “spessore”, in quanto RE di sesso e la p sta per puttana.

Sì, le puttane, dette anche concubine, mi concupiscono, i maschi (non) mi capiscono e, in questo scompisciarsi di cagate, c’è sempre chi in testa ti piscia. Sì, questione di testicoli. Da queste “che du’ palle”, sgorgano ettolitri di frustrazioni. Alcune mi frustano, eppur rimangono delle frust(r)ate con la r moscia fra parent(es)i. Sì, m’apparento con queste ma i miei genitori non amano tal mio genitale “pompante”, al che chiamano gli zii affinché m’ammoscino e mi rendan cadaverico, di latte e non tette, mi sbiancano come un poppante.

Eppur lo “appioppo”, tutte le accalappio e mi gridano che m’impiccheranno. Voglian appiccarmelo di “fuoco” ma va sempre fuori, dunque dentro, e su queste ci (s)piove. Che (s)chiappe, come m’inchiappetto io questa vita “a culo” fra le l(i)ane, neanche tuo frate(llo), freddissimo, che recita la sua re(li)gione fottuta a Cheeta, pregando la scimmia più “alta”, un Dio dei cazzi cristiani. Pover cristi, s’inalberano sempre talmente da diventar poi buddisti perché hanno raggiunto il “nirvana” del troppo scazzarsi. Sì, svuotati/e, sono “elevati” e, spompati, cos’altro rimane lor da vivere se non “reincarnarsi” in un uomo nella speranza che la prossima vita sia (dis)umana?

Comunque, ho perso il filo.

Il titolo è su Dickens, ok, ho sonno, ne parliamo domani miei Twist.

E ricordate, però, prima di dormire: ogni Oliver ha le olive sue.

Evviva “Braccio di Ferro” e Olivia stesse con Bruto.

 

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