Poesia d’un eterno uomo stand by me
Nostalgia incarnata, incatenami perpetuamente nel nostalgico torpore che sciogliersi non vuole, sì, così duole ma io non mi voglio, tu non mi vuoi, e il volere non è potere, chi afferma il contrario, ecco, può andare a prenderselo in quel posto, cioè nel plateale sedile posteriore del su(in)o guardarla sempre a posteriori, facendosene… una ragione della “regione” (s)fottente, da fottere assolutamente, d’un falso “proiettarsi” (in) avanti, meglio invece il (di)dietro, ché dello scendere a patti e a “patte” di “quelli” con le (s)palle nel mai addolorarsi a fin(t)i “ficcati”, del non desiderar la sacra “sofferenza” per bugiarda scappatoia e un’altra squal(lid)a scop(pi)ata, assai mi rattrista, van presi a sassi, semmai pure “assassinati”.
Adoro quel film, Assassins, la storia di due stronzi che se lo fanno a vicenda, e son arme letali solo per “mirar” la Moore, bella donna, ma Donne(r)… suvvia. Questa frase è una boiata, sempre meglio della tua “bona” vita. Sì, siete dei morti viventi, mai vis(su)ti, quindi non foste sebben andiate alle feste, non sarete e non pretendete di stare da qualche parte, e il vostro “godere” è, a mia vi(s)ta, a mio avvisto e non dar voi nessun vis(t)o, non vi do neanche del lei, non darmi del tu, non sono vostro amico, tuo, donna, non sarò, ecco(lo), questo non gode, (non) è niente, vita non è vedere, ancor più controproducente, deleteria, stupida, doppiamente addolorante consolazione, ché chi non ha rimpianti è solo un fantasma , io mi sven(tr)o mai davvero vivendo neppur (s)vend(endol)o, mai sentì e, detestando il g(i)usto del sanissimo piangersi addosso, la puttanesca vita sputerà solo sul prossimo in quanto di sé vive la superficie del lasciar che scorra “a culo”, mentre con me stes(s)so, “placidamente torment(at)o” di addo(r)me(ntato), persevero, ostinato e masochisticamente “godendo” da saccente, da sal(i)ente del dolce, saggio viaggiar, sì, presto la mia anima ritornò furente, nel vento scalpitando, da scalfita, arrossita, intimidita, da tante paure grandiosa-mente risorta, gemette e, dai gemiti inascoltati d’un gelo che parve interminabile, oggi si riasse(s)ta, eppur mai trovo tutt’or pace né dottori e nemmeno voglio l’or(t)o, ripudio la serenità, questo sentimento così da tanti inseguito, illusoriamente asserisco io, perché reputo la calma e la pacatezza soltanto un alibi consolatorio d’una ricerca utopica dell’inattingibile felicità, ché la felicità perenne non (r)esiste ed è dunque sol la parvenza mentitrice del sé più ingannevole nel rifuggire dal vero dell’essere, anzi, dai “vetri” degl inevitabili, inne(r)vati, piccoli grandi dolori permanenti. Che tanto vi scheggiano quanto v’illudete, appunto e “(r)affinati”, d’asciugar d’ogni ferita.
Meglio i vol(t)i pindarici e riscender in “basso”, tra “magnifiche” periferie fatiscenti. Ma quali psichiatrie e (fanta)scienze. Adoro la mia vera pulsione da “barbone”, io stesso, ancor prima che voi possiate (s)pos(s)sarmi, mi emargino. E non voglio rimarginami. Ancor più m’emarginerete, urlando “Man(na)g(g)ia!”.
Ma io vi bevo e incontro Rino. Abita sempre in Via Agucchi, è un cucco, un cocco, uno di cu(cu)lo parato, oppure è soltanto uno senza un soldo che, rivolgendosi all’assistenza sociale, “allieta” le sue (r)esistenti (scon)fitte con l’illusione, eccola là…, dell’underground solidarietà in “marc(i)a” di tanti altri “(ri)dotti(si)” a solidarizzar da “polli”, politici, un(g)endosi “ver(d)i” nel radical part(it)o del loro polar esser nostalgici come in Solaris e addio Sole ma vai di “Margherita?”. Uomini Cocci(ante). Falce e martello, un altro matto impazza nelle p(i)azze, lo accusano, per (in)castrarlo, di esser manesco perché l’accusa di mani(a)co l’ha (ar)reso sol più “duro”.
Ecco i fascisti, i razzisti che davvero credono che a Milano tutto funzioni, invece anche lì non funziona un cazzo.
Alcuni, allora, in preda al panico, d’attacchi da Robespierre, incitano alla Rivoluzione, intanto metton incinta una sicula scimmia come Cita. Lei partorisce il figlio, s’intuisce subito che non sarà un figo alla Tarzan, ché oggi van di moda i selvaggi, allora, di comun accordo, col marito “matto”, la “sana” porta il fe(ga)to ai centri di salute mentale, poi va in centro, facendo shopping con una che ama il centrino. E, in questo centrarsi, io che c’entro? Taglia e cucimi la bocca se (ri)esci. Stai dentro? Coglione!
Lui entra, “penetrante” scappa e scivola, mentre tu sei una schiappa. Mangiati una scaloppina e quindi al galoppo, fra groppi e in gola delle grappe, un’altra (v)u(l)vetta passera… e la volpe col suo “grappolo” che tifa Roma, mentre una lupa va col lupo ed è, secondo me, (preferi)bile una birra di buon luppolo. Grappini, comunisti, tappi, un altro topo, e tutto va a zoccole.
Sì, l’inizio era poetico, poi abbiam “sbandato”, si chiama sbraco. Che sbadato.
Ho sba(di)gliato. Ci ho preso?
Si chiama stronzo.
E lo stronzo si reca al bar. Vede una scema che gioca a carte con un nonnetto. Porge al nonno uno schiaffo e lo consegna al becchino, si becca la sberla di bocca e bocchino, quindi le dà la nona di Beethoven, mentre lei glielo fa partire in quinta nell’Arancia meccanica d’una macchinetta automa(tica), distribuente a voi dei caffè amari e a me la sua schiuma, zuccherandola liscia di “espresso”, sbavante, sbrodolandole, liso, di ass(o) a getto(ni).
Dunque, con altri cessi la/o getta. Tirandoselo/a con altre sciacquette.
Sciacquatela!
Insomma, era, è e sempre sarà una puttana.
Sono un uomo “assorbente”. Lei me lo sorbisce, tu beccati il sorbetto.
Sorbole!
Che faccia da culo. Anche voi (non) ce l’avete, mer(de).
Evviva gli Asinelli!
Non ha sen(s)o, fate i seni?
di Stefano Falotico