Archive for May, 2013
Iron Man “Mi (s)piego, ma non mi sp(i)ezzo “messaggia” al Mandarino
Forse, l’avevo già proposto, ecco a riproporvelo poiché non sono un Pongo per i giochetti psicologici degli sciroccati.
La sfida è lanciata:
“Only God Forgives” delude Cannes
Ecco il regista che immagina di essere un pornografo, senza riprendere mai la penetrazione, sogna un’arte come “atto di violenza”, ma rifiuta di uscire dai cliché di un’innocua video installazione. Ma, se davvero vogliamo dirla tutta, il film ci ha quasi convinti. Perché ammette finalmente che questo cinema, “bellissimo”, è un fallimento
A sentire quei fischi in sala che si sovrappongono ai timidissimi applausi, viene da pensare che l’effetto collaterale Refn sia destinato a ridimensionarsi presto, riassorbito nello stesso vortice d’immagini, tutte in fondo uguali, da cui era emerso. E si è tentati anche di aggiungere un’assurda rivendicazione: “eppure l’avevamo detto”, esponendoci alla condanna senz’appello dei fanatici. Ma il punto non è questo. Se davvero si vuol vedere e vivere Only God Forgives come una delusione rispetto a Drive (il cui successo trasversale magari avrà infastidito i fedeli della prima ora), significa aver frainteso tutto il cinema di Refn, che da sempre ha inseguito questa stilizzazione definitiva. Significa non aver compreso che, se davvero c’era da incazzarsi, era allora che bisognava farlo, proprio quando si applaudiva e si rideva alle teste sfondate in ascensore. In effetti, Only God Forgives è un film che non cerca scusanti. È un pugno scagliato a vuoto, che, nonostante la sfida lanciata, non ha la minima intenzione di colpire al cuore, come pretendeva di fare il precedente. Niente più romanticismo, baci che durano un’eternità, corse in auto con la musica che batte. È un film che non ammette neanche la possibilità della provocazione di un cadavere sventrato sul serio, di una violenza allucinata. Il suo umore è perfettamente scritto sul volto monocorde di Ryan Gosling e sull’apatia del suo personaggio, Julian. Le fiamme dell’inferno, semmai vive, si sono spente nella forma.
Ecco Only God Forgives è il film dello svelamento, quello che confessa, senza più mezzi termini, come le preoccupazioni di Refn non riescano ad andare oltre il piano, i colori, i tagli di luce, i rapporti dei personaggi con lo spazio, quell’incrocio tra pittura e teatro che passa da Valhalla Rising a Bronson (e cambiando l’ordine di tutti gli addendi, il risultato è questo). Davvero non c’è alcun interesse, ossigeno per questa storia di rapporti edipici, di maledizioni, discese agli inferi e redenzione. Refn non ha più driver o pusher da mandare allo sbaraglio, non c’è più passaggio, attraversamento. Se c’è movimento, è naturalmente rallentato, ridotto a segno, gesto rituale. E i personaggi sono sempre già sul posto, al centro dell’inquadratura, inchiodati da un fascio di luce, incorniciati da una porta, statue di sale bloccate dalla paura di poter uscire dai margini del proprio ruolo. No, davvero Refn è un bad storyteller, come dice qualcuno che preferisce Anthony Mann. Proprio perché se ne frega, pensa che la storia non sia affare da uomini, ma il semplice pretesto per imbastire un teatro di pupi, di figurine di carte agite da una precisa, complicata meccanica di fili. E, allora, tutto potrebbe apparire persino corretto, funzionale all’umore di morte del suo mondo. Se non capitasse di intravedere nel senso di colpa di Julian, che affonda la spada e le mani nel ventre della madre, per poi accettare di espiare i suoi peccati, il senso di colpa dello stesso Refn. Il regista che immagina di essere un pornografo, senza riprendere mai la penetrazione, sogna un’arte come “atto di violenza”, ma rifiuta di uscire dai cliché di un’innocua video installazione. In fondo, è Refn ad aver paura. S’immagina come un corpo mutante, disposto a reinventarsi, per negare sempre la sua collocazione naturale nei confini del mainstream, ma poi non può fare a meno di ripetersi nella fotografia di un cinema bloccato. Ed è indicativo come scelga Bangkok, ma poi rifiuti di scendere in strada, nel timore di essere preso dalla città. Se davvero vogliamo dirla tutta, Only God Forgives ci ha quasi convinti. Perché dichiara finalmente che questo cinema, “bellissimo”, è un fallimento. La bellezza, così sembra, è un’altra cosa. Oh my God!
Sharon Stone from Cannes, goddess
Bionda gola che mi godette!
La giovinezza dello Sguardo si perpetua a Cannes di suprema, divina Sharon Stone, adamantina in blu vestirsi d’aura ancora istintiva e primordiale erotismo rosso della torreggiantissima, basica biondezza
Aforisma sacrosanto: qualsivoglia giovane che, al di sotto dei trent’anni, non s’è mai recato a un Festival, senz’ombra di dubbio è un idiota e non gustò mai la femmina!
Posso sottoscriverlo previo querele da chi non s’è fottuto il panorama delle emozioni cinefile ma, di solforici pettegolezzi, esonda iroso nello squallore quotidiano, afflitto com’è dal caso “umano” della sua miserabilità a inseguir corna, gelosie, ripicche, ricatti manichei e un sen(s)o inoppugnabile di tremenda amarezza, schiantata dal mio Cuor aperto ma fragoroso nel rimpiangere che costui è la bassezza personificata, adorator solo della “figa” e di qualche raggranellar il suo grumo di fameliche, quotidiane irritazioni da parassita non costruttivo e nemmeno “erettivo”
Ieri, Sharon Stone, Donna eternamente “trapezista” nell’irretirla-ah dentro… il “cunicolo” ardente d’ormoni miei combacianti di assoluta venerazione, sfilò in “passerella”, nel “Monte” elevato a mio adorarla.
Il suo seno, liscio, ancora sodo come quando, “esecrabile”, lo divorai “fantasioso”, spellandomi nell’assaggiar i tocchi dei suoi tacchi. Nera cupidigia, affilata di magrezza maturissima, un turbinio (sotto)marino di calore emanato a carnagione eburnea del peccaminoso in Lei incarnato.
Salirei su quelle scale per adocchiarla… più da vicino sotto la gonna, sugli “strascichi” per invitarla a un chiosco della Costa Azzurra, e goderle la “granita” refrigerante a mio eccitato nel tramonto “calante” e di nostro sbavare d’avidamente soffiarci come la brezza “sobria” nell’alzar la sfrontata impudicizia, già (s)velata, e “gelidamente” m’avvolgerà in una cannuccia delle sue “serpentine”, succhiando Lei il ghiaccio del punteruolo-basic instinct e io scrutando fra le invisibili mutandine quand’accavalla e ammicca nello sbuffare i voyeur indiscreti all’ indomito “ferirla” ancor prima di “permearci”.
Pioggia di liquori, piccante e allusiva ti siedi sulle mie gambe. Poi, leccandomi le orecchie, t’allontani scattante, già in me toro scatenato per pugilistiche e “sanguigne” botte… da Casino, nell’attesa plateale di quando il gong assesterà l’ultimo colpo alla tua femme fatale. Perderò ai punti, di sutura e di sudore, ché mi macellerai, schienandomi al tappeto sulla mia disossata patta… Veniamo a un patto. Scopami ancora! E vincerai. Sì, voglio perdermi in te, Sharon.
Sì, cowgirl sussultante e spronata dal mio salivar di sliver.
In quest’albergo, albergò il Peccato, e tu ne sei gloriosa all’insinuarmi, mia libidinosa.
Ah, poi riprendo posto sulla poltroncina e, da micia, mi lanci un “Ciao”.
Io e te sappiamo la verità. La verità fu una Notte d’intime cavità.
Adesso, ritornata fra le star, mi disdegni e mi urli un “Cavati dalle palle con classe!”.
Perché sei una Donna mascolina a letto, anche se il tuo “muscolo” lo sai e infatti salì…
Non ci sto, e stronza mi rifai da capo a piedi.
Firmato Stefano Falotico
Se Dio ti tradisce, Martin Lutero è tuo fratello
Non ho “religione”, sono ateo, tu sei un apostolo degli atti impuri? Credo e rinunzio!
Continuo ad annoiare tutti ma ad avercela con quei “qualcuno”, teppistelli della peggior feccia, sempre a sparger infamie ché “affamati” da burloni-maniaci sessuali e invece da “sbullonar” in quanto bulli
Di mio, apro la patta, “modero” uno “slinguazzarlo” modernissimo tendente all’instant classic dello “staccartelo” nel distaccato “Steccolecco” a mia realtà ipere(g)ale, insacco le lor “sacche” e, “a pelo”, li addormento, quindi tiro… fuori dal frigorifero lo zucchero filato donatomi da tua sorella in una Notte di “veli” e lo riscaldo in bocca, “frastagliando” il gusto mieloso all’amarezza che t’ha ingoiato, nel “fuorviare” la devianza che m’accusò di succosa “perversione” da viali.
Son sempre stato questo, inutile chiedere al Papa di scomunicarmi. Comunico più Io con Dio di te, “reverendo” a cui m’inchino irriverente.
Lo incontrai a Roma, vicino alla Fontana di Trevi, a buttar monetine per credere a un “ricco” Cristo migliore del suo… predicarlo. Mah, saprà il latino ma adesso ha il rimpianto di non aver fatto la “Comunione” con una extracomunitaria latina-sudafricana di Ostia.
Eh sì, era pasoliniana quella e ben il pisellino dei suoi pistolotti spronava per la “ricotta”.
Era tarda Notte, libero da sguardi indiscreti di “Famiglia Cristiana”, noto settimanale che uccise il Piacere del sensuale “cioccolatino” Novi, per aggirar il figliol prodigo dall’ultima tentazione di Cristo , “Sua Signoria” stava lì contemplativo come Toni Servillo de La grande bellezza. In cerca della sua Maddalena o solo d’una infantile regressione per le altalene? Suonan le campane, din don dan. Il rintocco… dunque “toccati”, onanismo della superstizione cattolica.
Su sguardo vuoto nel prendersi per il culo oppure “Novella 2000” dell’evangelista retorico come le colonne sonore diVangelis. Fra una metafisica-Terrence Malick delle coste di Sorrento e un Cinema “voyeur” da Sorrentino.
Eh sì, un blade runner per un Paradiso perduto. Questione di John Milton, Al Pacino o spauracchio della Chiesa “purista” contro i libri dell’avvocato del Diavolo?
Ah, a dar retta alle bolle, neanche “quelle”… acqua e sapone, solo Benedicta Boccoli in sagrestia per un “balconcino” da ex Botticelli. Benedicta ballava, il Papa mai bollò. E oggi è bollito.
Che brodaglia, che bavetta, che liofilizzato!
Mah. Michelangelo dipinse la “cappella” pur Vergine sino alla morte, tua madre indossa la sesta da chiatta, e la “Sistina” non è vincente. Perciò, l’Enalotto te l’ha piazzato come San Pietro di “chiave”.
Meglio un unno per le mammelle dell’Inno di Mameli!
Stai cadendo a pezzi, cazzo. Che fai? Il cazzo deve rialzarsi, oh. Non è che è un cazzo pazzo? Eh, Cristo! Almeno laCiccone si veste fetish. Che zoticona!
Lo ammoscia, a questo punto meglio la Madonna!
Ora, come puoi far il parroco se la Monaca di Monza indossa Fra Cristoforo? Ah, i famosi “fori” romani, di cui è specialista Ferilli Sabrina, eh sì, Sabrina è “a gattoni” delle sabine per la saliva del ratto che conta le sue prostitute “alla romana”. E se le “fuma” con accento rauco in quanto Franco Calif…ano.
Mah. Di mio, so che l’Italia è un paesello di pastasciutta. A Napoli, c’è la Barilla, a Barletta son grasse di tette con tanta “besciamella”, a Torino delle Grissin Bon anche se dovrebbero essere (ri)forma-te a Reggio Emilia, perché mangiano la mortadella prima d’aver spruzzato la panna sulle tagliatelle. Eh sì, in Italia vige la Legge del Taglione.
Memore dei “fasti” fascisti, eh… la Patria e l’Altare…, come volevasi dimostrare da Teorema “Cogli la prima mela, spezzando il pane e le pen(n)e… avvinazzate all’arrabbiata”, Adamo ed Eva son oggi marito e Lele Mora.
Intanto, Max Gazzè canta dei poveretti e ha tre figli con tanti soldi.
Infatti, Fabrizio Corona è in carcere, e ha le spine di “aureola”. In quanto, pozzo nero della sua Croce tamarra dallo splendore “aureo”.
Di mio, preferisco mandarvi a pisciare.
Anche perché, se andaste a cagare, non pulireste il cesso del vostro “bagno”.
I romani costruirono le “Terme”, e tu sei terminato in quanto affogato nel fango.
Firmato il Genius
(Stefano Falotico)
- Motel (2013)
Sì, una nottataccia con John Cusack e questo Bob col cotonato.Se avete dei dubbi nella vita, un riposino con la valigetta pericolosa, una puttanina per dissipare la puttanata assicurata.Ah, se poi non avete alcuna assicurazione, rivolgetevi al portiere, sempre che non sia impegnato a rubarvi la macchina.
- La grande bellezza (2013)
Il film è stato stroncato a Cannes, la presenza di Verdone e della Ferillona ha reso Servillo un servo della commediuccia ispirata a Fellini ma invero fallita e basta. - Inside Llewyn Davis (2013)
Oh, ecco i Coen. Questo è Cinema, non cazzi di Soderbergh col candelabro.
Festival di Cannes, “Behind the Candelabra” di Steven Soderbergh
Da Sentieri Selvaggi
A tentare di fare un confronto tra le apparizioni di Michael Douglas all’interno della filmografia soderberghiana, si potrebbe già tracciare il percorso di trasformazione che ha investito stile e anima del cineasta, donando a Soderbergh una stagione, quella attuale, di inusitata felicità creativa: tra il Michael Douglas di Traffic e quello di Behind the Candelabra passa la liberazione di uno sguardo che ha deciso di rovesciare il peso del proprio cinema dal mezzo al fine (non a caso Douglas è anche in Knockout che è forse il vero manifesto del tourning point soderberghiano), trasfigurando la propria cifra espressiva da esplicito attentato celebrale alla materia filmica a veicolo per l’ebollizione totalmente impazzita degli elementi messi in campo. Il cinema che fa oggi Steven Soderbergh assomiglia davvero pazzescamente al periodo elettrico in cui si tuffò il Miles Davis post Bitches Brew, dopo 30 anni di carriera già rivoluzionaria nel jazz: questi suoi ultimi film si assestano tutti in una zona che probabilmente va tra Rated X e Tutu…
Stavolta Soderbergh è impegnato a girare la versione gay tutta lustrini e pailettes di Magic Mike a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80 a Las Vegas, e questo già potrebbe bastare allo scintillio divertito della confezione. Storia vera del tormentato amore lungo un decennio tra la star del pianoforte dei casino Lee Liberace e il suo giovane assistente Scott: scrive il sommo Richard LaGravenese e quindi Soderbergh sembra mostrare addirittura sentimenti autentici, melodrammi esponenziali nemmeno troppo raffreddati, passioni che paiono mantenere una loro pura aulicità anche quando esplodono nei glory holes dei sexy shop o in simili condizioni “esplicite” che il regista mostra con estrema naturalezza (un’altra delle doti di Soderbergh, lo sappiamo bene, è girare qualunque cosa gli si pari davanti allo stesso modo, senza scomporsi o crucciarsi più del dovuto). E però il nostro è autore a cui piace tornare ancora e ancora sui temi che lo ossessionano, e dunque anche lo script di LaGravenese, con annesso meraviglioso finale visionario di (questa sì) vera Grande Bellezza, è costretto a piegarsi ad una nuova storia di contagi (con lo spettro dell’aids), dipendenze chimiche e esperimenti di modifica sul proprio corpo: è evidente che il gesto d’amore che più interessa a Soderbergh sia la plastica a cui Scott si sottopone per assomigliare all’amato Liberace, e relativa addiction dalle pillole per la “dieta californiana” fornitegli dal dottore Rob Lowe.
E pur regalando a Michael Douglas un’interpretazione maiuscola a cui l’attore forse non sperava più nella sua carriera, è sull’abituale Matt Damon che Soderbergh torna ancora una volta a lavorare con clamorosa lucidità (l’apparizione nascosta di Damon in Guerrilla davvero si rivela oggi come la sequenza migliore di tutto il dittico sul Che…), modificandone instancabilmente in progress la neutralità espressiva nel corso di tutto il film con risultati di quasi body art vertiginosa. L’attore sta al gioco – di più: Matt Damon in realtà fa il gioco.
Robert De Niro al Bates College
De Niro, “neolaureato”, deride e sbeffeggia elegantemente il sistema scolastisco americano, ottuso.
Lui è la dimostrazione che essere geni non è prerogativa dei laureati alla Bocconi. Anzi.
La scuola ottunde, castra, plagia.