Festival di Cannes, “Behind the Candelabra” di Steven Soderbergh

21 May

Da Sentieri Selvaggi

 Scrive il sommo Richard LaGravenese e quindi Soderbergh sembra mostrare addirittura sentimenti autentici, melodrammi esponenziali nemmeno troppo raffreddati; Michael Douglas racconta da solo della magnifica liberazione in atto nel cinema dell’autore, come quella del Miles elettrico degli anni 70. Ma è sugli esperimenti di body art sulla neutralità espressiva dell’usuale Matt Damon che il regista concentra anche stavolta le proprie ossessioni per il contagio e la dipendenza chimica.

A tentare di fare un confronto tra le apparizioni di Michael Douglas all’interno della filmografia soderberghiana, si potrebbe già tracciare il percorso di trasformazione che ha investito stile e anima del cineasta, donando a Soderbergh una stagione, quella attuale, di inusitata felicità creativa: tra il Michael Douglas di Traffic e quello di Behind the Candelabra passa la liberazione di uno sguardo che ha deciso di rovesciare il peso del proprio cinema dal mezzo al fine (non a caso Douglas è anche in Knockout che è forse il vero manifesto del tourning point soderberghiano), trasfigurando la propria cifra espressiva da esplicito attentato celebrale alla materia filmica a veicolo per l’ebollizione totalmente impazzita degli elementi messi in campo. Il cinema che fa oggi Steven Soderbergh assomiglia davvero pazzescamente al periodo elettrico in cui si tuffò il Miles Davis post Bitches Brew, dopo 30 anni di carriera già rivoluzionaria nel jazz: questi suoi ultimi film si assestano tutti in una zona che probabilmente va tra Rated X Tutu

Stavolta Soderbergh è impegnato a girare la versione gay tutta lustrini e pailettes di Magic Mike a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80 a Las Vegas, e questo già potrebbe bastare allo scintillio divertito della confezione. Storia vera del tormentato amore lungo un decennio tra la star del pianoforte dei casino Lee Liberace e il suo giovane assistente Scott: scrive il sommo Richard LaGravenese e quindi Soderbergh sembra mostrare addirittura sentimenti autentici, melodrammi esponenziali nemmeno troppo raffreddati, passioni che paiono mantenere una loro pura aulicità anche quando esplodono nei glory holes dei sexy shop o in simili condizioni “esplicite” che il regista mostra con estrema naturalezza (un’altra delle doti di Soderbergh, lo sappiamo bene, è girare qualunque cosa gli si pari davanti allo stesso modo, senza scomporsi o crucciarsi più del dovuto). E però il nostro è autore a cui piace tornare ancora e ancora sui temi che lo ossessionano, e dunque anche lo script di LaGravenese, con annesso meraviglioso finale visionario di (questa sì) vera Grande Bellezza, è costretto a piegarsi ad una nuova storia di contagi (con lo spettro dell’aids), dipendenze chimiche e esperimenti di modifica sul proprio corpo: è evidente che il gesto d’amore che più interessa a Soderbergh sia la plastica a cui Scott si sottopone per assomigliare all’amato Liberace, e relativa addiction dalle pillole per la “dieta californiana” fornitegli dal dottore Rob Lowe.
E pur regalando a Michael Douglas un’interpretazione maiuscola a cui l’attore forse non sperava più nella sua carriera, è sull’abituale Matt Damon che Soderbergh torna ancora una volta a lavorare con clamorosa lucidità (l’apparizione nascosta di Damon in Guerrilla davvero si rivela oggi come la sequenza migliore di tutto il dittico sul Che…), modificandone instancabilmente in progress la neutralità espressiva nel corso di tutto il film con risultati di quasi body art vertiginosa. L’attore sta al gioco – di più: Matt Damon in realtà fa il gioco.

 

 

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