“I pesci piccoli nuotano in superficie, quelli grossi in profondità. Se riesci a espandere il bacino in cui peschi – la tua coscienza – puoi prendere pesci più grossi.
(…) Se la tua coscienza è grande come una palla da golf, altrettanto.
Limitata sarà la tua comprensione di un libro durante la lettura, o la consapevolezza di ciò che vedi guardando fuori dalla finestra, o lo stato di veglia quando ti alzi al mattino; o ancora, la felicità interiore nell’affrontare la giornata.
Se invece riesci a espandere, a far crescere la coscienza, allora aumenterà la comprensione dello stesso libro, la consapevolezza di ciò che vedi guardando fuori dalla stessa finestra, lo stato di veglia al mattino, e infine la felicità interiore nell’affrontare la giornata.
Puoi catturare le idee a un livello più profondo. Allora la creatività fluisce davvero. Rendendo la vita ancora più simile a un gioco fantastico.”
Da questa “banale” osservazione lynchiana, “prelevata” ed “estratto minerario” dal suo arzigogolo “purificato” dall’inezia del pio asservimento alle costrittive regole ch’evadono ed eludono ogni sovrastruttura, arcuandosi nel delirio, nella forma mentis disinibita, eccentrica senza concentrici “vizi” del circolo da ingannati Ulisse nella maga Circe e nelle maree d’acque solo sommerse dalla frode d'”autofalsificazione” (in)castrante, può scaturire appunto “l’ozio” profondissimo della funambolica, circensissima libertà artistica, non (conta)minata da astrusi bavagli che sbrodoleranno sterili(zzati) nelle liofilizzate “placidità” compiacenti il plauso retorico, ma una “letargia” contemplativa d’indagine rinvigorita di folta, vivida, liquida rinascenza.
Così, lo “strambo” Uomo che, dalle sue misteriche “allucinazioni”, partorì lo schiaffo morale dell’elephant man, che stupefacente s’incarnò di cuori selvaggi e macabri assassini fantasmatici, “infuocati” nel Twin Peaks fiammeggiante e derivativi epigoni poliedrici, si (s)materializzò nell’acume d’ogni più imperscrutabile abisso, si terge, si strugge ancora, si erse e risorgerà (ad) ogni (s)volta d’elevazione sinaptica e cangiantemente “stordita”, dunque onirica delle sue cime “psicomagiche“. Montagna sacra dello zen(it).
E, con Una storia vera, si distacca apparentemente dai suoi incubi “perversi”, “ammorbandosi” mirabolante in una morbidezza dolce che allibisce per come (anti)lineare è invece un’altra complicata “bacheca”, nient’affatto straight.
Un on the road colmo d’imprevisti, dall’equilibrio calmissimo “turbato” da una notizia al cardiopalma.
Alvin è un anziano che vive in campagna assieme alla figlie Rosie e, detonante come appunto un fulmine a ciel sereno nella Notte più “pacata”, ecco che il telefono squilla, lacera la chete.
Il quasi coetaneo suo fratello Lyle ha avuto un infarto e forse sta morendo.
Lyle abita a circa quattrocento chilometri da Alvin, in una “cascina” abbandonata nel bosco “(s)perduto”, soprattutto dalla memoria di Alvin.
Infatti, fra Alvin e Lyle, oramai da anni non corre buon sangue.
Ma il blood della “vecchia”, arrugginita anima di Alvin, deflagra ora d’affetto, rimorso “allarmante” per quest’inaspettato, sconvolgente “colpo al Cuore”.
Così Alvin, non più munito di patente “normale” in “via” della sua veneranda età, decide che è il momento giusto per ricongiungersi a suo fratello, e “solissimo” col suo trattore intraprenderà un viaggio “insperato” ma vivo di speranza…
Nel suo “pellegrinaggio” incontrerà un mucchio di bizzarrissimi personaggi, la variopinta stranezza del nostro sfumatissimo Mondo, e a tutti dispenserà illuminanti consigli da saggio, congedandosi da ognuno di loro con le limpide, vivaci e malinconiche iridi del suo Sguardo.
Il tragitto sarà compre “ripido” e impetuoso, ma la sua fatica sarà premiata dalla Bellezza della commozione.
Lyle, Harry Dean Stanton “speciale”, riemergerà dal rancore assopito, dall’imminente morte miracolosamente scongiurata, pronunciando la semplice, celebre, dritta frase “Hai fatto tanta strada con quel coso per venire da me?“.
Alla quale, Alvin, sull’orlo delle lagrime, “respirerà” l’abbraccio d’un eloquente “Sì, Lyle“.
Senza aggiungere altro.
Quindi, la cinepresa di David planerà liturgica in volo, sin a fermarsi nel firmamento d’un Badalamenti ipnotizzante e, dentro di noi, catartico.
Il capolavoro emozionalmento (meno) delirante (?) d’uno splendido, indimenticabile, immenso Lynch.
(Stefano Falotico)