“Interruzioni” lampanti nella fratturata limpidezza
Questo film esce, calmo e “acquietato” prima delle turbolenze di Tarantino, proprio prima che scoccassero, appunto, gli anni ’90 “perturbanti” e “rivoluzionari” d’un Cinema che, da tenere storie melodrammatiche e “tragiche”, si (s)lanciò furibondo nei “turpiloqui” sparati “a bazooka, lanciarazzi di controcazzi” su battute “irresistibili” e senza freni, rigenerato dai languori troppo soffici e “sdolcinati” di molto degli ottanta, invece perlopiù “inoculato” in fitte, “fittissime” trame tratte da “storie v(ip)ere”, spesso romanzate per “solleticare” un’America ancora sconfitta dall’incubo dei seventies, che rabbiosa “sputò” i suoi dolori mai sanati, mai proprio, di sinonimo “rafforzante”, rimarginati. Anzi, vite d’emarginati, di bordi di periferia fatiscenti su decadenze pensierose perché amputati dalla spensieratezza, in catarsi quasi sempre “esplosive” di collere e ribellioni, previste quant’ancora traumatizzate, sconcertanti di pomeriggi da ca(r)ni e tassisti melanconici nell'”estraneità” apparente che s'”eremitizzò” d'”anestetica” agonia laconica per (s)fuggir (dis)illusa dalle false lotte di potere o forse da un’identità rubata che masticò chilometri di strade consunte nell’anima già polverosa e non più negli “incantevoli”, retorici on the road.
Furti indegni a coscienze “innalzate” forse per la sopravvivenza d’un decoro lacerato, adombrate dalle ombre bugiarde di chi ne assopì l’ira salvifica, reprimendola di veli “taciti” a “silenziarle” per ammansirne, d’adulatoria ma “infida dolcezza”, il grido che latente vibrava per poi squarciare, powerful, “acusticissimo” e accusatorio senz’assolverle assolutamente, gli occhi, le orecchie e i “cuori” cinici di States in uno stato d’assoluta, ipocrita “dormienza”.
Le parvenze della “tranquillità”.
Dopo questo preambolo, iniziamo con la pellicola di Penny Marshall, candidata agli Oscar in tre categorie importantissime: “film, sceneggiatura non originale e miglior attore (De Niro)”.
In un ospedale “sperduto” dentro “analitici” sogni di pazienti “matti” e catatonici, dal libro di Oliver Sacks (raccolta di memorie e dalla sua esperienza in campo medico), un dottore innovativo (Robin Williams) sperimenta, scontrandosi con superiori e colleghi “tradizionali”, un nuovo farmaco, la “L-DOPA”.
Dopo imploranti, innumerevoli richieste all’ordine “superiore”, gli viene accordata la possibilità di somministrare la “cura” a un paziente da lui scelto, Leonard Lowe (De Niro), affetto dall’infanzia di encefalite letargica, virus scatenato da una patologia di cui, a tutt’oggi, nessuno è risalito alle cause che provocarono un breve ma letale contagio pandemico fra il 1917 e il 1924, proprio in alcune zone circoscrittte del Paese. Un raggio d'”azione” ignoto e spaventoso che ci ricorda, rabbrividente, l'”irrealtà” di E venne il giorno di Shyamalan.
Dopo alcuni tentativi fallimentari, il Dr. Malcolm Sayer (tale è il nome del personaggio di Robin, nel “biopic” d'”autopsie” su “cadaveri” da, “elettricamente”, “defibrillare” di nuova vita), anziché mantenere la stessa dose, prova invece ad aumentarla.
E, in una Notte “buia” quanto vividamente “allucinatoria”, il nostro Leonard riapre gli occhi e, appunto, miracolosamente si “risveglia”.
Prima l’incredulità stupefatta, poi i festeggiamenti e il “ritorno” al Mondo per Leonard.
Ci sono però “elementi” che il nostro “Frankenstein” Williams non aveva calcolato.
Innanzitutto, Leonard è adesso un Uomo, “fisicamente d’aspetto corporeo”, ma la sua mente è ferma quando s'”addormentò”, cioè ad uno stadio puberale.
Poi, l’elevato dosaggio del farmaco creerà mostruosamente assuefazione, costringendo il dottore a “drogarlo” con maggiore frequenza, per evitare i però inevitabili effetti collaterali che, in Lowe, si stanno manifestando in modo preoccupante e crescente: tic, movimenti scomposti, deliri e manie persecutorie.
E, il tripudio di gioia felicissima, d’una ins(u)perata quanto meravigliosa, rinata “sanità”, colerà a picco peggio della prima volta. Fermando tutto.
Un Williams, “finalmente” serio ma anche “sdrammatizzante” d’autoironia “amara”, è strepitosamente sobrio nelle lucide sue disperazioni da “missionario”, un po’ goffo ma inarrendibile.
Da caffè “finale” con l’infermiera timida per “scremare” l’impotenza avvilente dei suoi sforzi contro una Natura “geneticamente” cattiva e ingiusta.
De Niro, in varie facce dei suoi stessi celebri camaleontismi, sfodera un Robert (in)aspettato, di multipla (im)personalità.
Dalle “espressioni” (im)mobili della prima mezz’ora, in cui “non muove un muscolo facciale”, al “rinfrescante” esser “rigenerato”. Così tanto, forse d'”abusare” di smorfie non solo “malate” ma “insopportabili” d’istrionismo troppo “immedesimato nella parte scomoda”.
Amatissimo alla sua uscita e oggi, come al solito, bistrattato di “rivalutazioni” a criticarne la verosomiglianza “alterata”, appunto, dalla realtà.
Non è invece affatto un film “melato”, è un incubo angosciantissimo che “uccide” ancora.
(Inter)rotto nella vita.
(Stefano Falotico)