Eccoci qua, dopo una pausa momentanea, tra cassetti che si aprono, qualche sogno che si (dis)chiude, polvere sul selciato, genialoidi passeggiate a passo di danza, in un Tempo fuori da ogni “cronologia”, alterato, anche “allitterato”. Nella suspense di quel che avverrà, forse (e)venti positivi, forse “sciagure”, iatture, “catture” o a “captarci”, capitani ancora, nell’Oceano increspato d’onde solitarie sul ponte di “maestri” o assieme a scolarci una birra dopo una “mareggiata” turbolenta, or distensivi, anzi a stenderci ove tutto iniziò, nella celluloide senza “colori” ma più colorata nel citar le origini, omaggiarle con acute finezze cinefile, “incagliarle” un po’, fra detrattori e ammiratori sfrenati, un’Academy che incensò di lodi e premi ambitissimi, i più prestigiosi (Film, Regia, Attori, fra gli altri), una mesta serata in un Theatre illuminato dalle più grandi stelle, una volta all’anno, a emozionarsi e commuoversi per un’opera “controcorrente”, attualissima, “sviscerato” atto d’amore alla poesia “ingenua” del Cinema come il concorrente Hugo Cabret di Scorsese.
Porgo dunque gli onori alla prima recensione di ROTOTOM, anche Lui nella nostra squadra per questo picaresco “giro del Mondo in 365 giorni” (anche se il bisestile ci contraddirà come le quattro stagioni, Vivaldi o ancor più vivi, evviva Arcimboldi!).
The Artist di Michel Hazanavicius
Il film più innovativo dell’anno è un muto, in bianco e nero, formato dello schermo 4/3. Sorprendente, deliziosa commedia The Artist di Michel Hazanavicius che narra le vicende di un divo del Cinema degli anni Venti alla vigilia della più grande rivoluzione tecnica del mondo delle immagini in movimento: l’avvento del sonoro. Rivoluzione che condannò all’oblio frotte di attori non in grado di trasmettere con la voce le stesse emozioni della recitazione enfatica tipica di quegli anni e causò la sospensione momentanea del linguaggio cinematografico.
La vicenda di The Artist narra proprio questo, la caduta del divo George Valentìn (Jean Dujardin) e successiva riabilitazione grazie all’amore per Peppy Miller (Bérénice Bejo) una piccola comparsa che grazie al sonoro diventa diva del nuovo Cinema parlato.
È divertente e pieno di grazia The Artist, sinceramente appassionato nel cercare un recupero filologico il più coerente possibile, nell’era del digitale e del dolby surround, al Cinema anni Venti. Ricco di trovate visive riassume in sé l’anima dell’inganno cinematografico per trasfigurare il trauma della trasformazione del divismo e conseguente perdita dell’innocenza del mondo dei sogni, il Cinema etereo ed enfatico distante dalla realtà che si confronta con i suoni di un risveglio prepotente e radicale. Un sussulto violento di modernità che squassa contemporaneamente le vite al di qua e al di là dello schermo così, in un colpo di genio proprio del Cinema, il suono irrompe nell’incubo di George Valentìn che ode il rumore degli oggetti che gli cadono corrompendo il (suo) mondo che dei suoni fino ad allora aveva fatto a meno. George è al contempo spettatore e protagonista di quel mondo in cambiamento, sogni e sognatori devono reinventarsi e le nuove possibilità espressive ridefinirsi sotto altri canoni e percezioni.
È ovviamente un esercizio di stile il film di Hazanavicius, un compendio di specifiche e rimandi cinefili all’epoca che si autocita adottandone le caratteristiche per descriverne l’umore e il clima. Il suono commenta le immagini sullo schermo con grande intelligenza e proprio la traccia sonora separa la Storia del cinema dal suo Mito, la minuziosa ricostruzione storica dalla sua rappresentazione. Straordinaria l’ultima scena, che finalmente divide l’epoca del muto da quella del sonoro con il lento carrello all’indietro che separa il set cinematografico dalla realtà. L’inganno viene scoperto, finalmente anche nel reale si odono le voci degli attori che solo pochi anni prima, anche nella loro realtà raccontata dal film, erano scandite dai cartelli. Necessario l’aggancio alle figure che hanno caratterizzato il periodo suggerendone le suggestioni passate, le anime di Buster Keaton, Douglas Fairbanks e di Rodolfo Valentino aleggiano nei set dai fondali dipinti, nella freschezza della messa in scena e nell’ingenuità vitale di uno spettacolo appena agli inizi della sua storia.
Ruolo della vita per il comico francese Jean Dujardin, che presta faccia e fisico a un divo fragile e disperato in crisi con la propria identità. Nell’esistenza del divo decaduto non c’è differenza tra palco, set e vita privata: le movenze sono le stesse, le espressioni e le passioni espresse secondo la medesima fisicità, connotando la piena corrispondenza tra la vita privata dell’uomo e dell’artista proiettato nell’immaginario collettivo del pubblico. Bravissimi tutti gli altri attori, John Goodman, James Cromwell, Bérénice Bejo e il cane di Valentìn, altro straordinario protagonista del film. Da non perdere assolutamente.
Vi lascio col divertente “Dietro le quinte”, con un assoluto dominatore della scena (o forse solo del “divano?”), il cane del film.
Un post di Stefano Falotico
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