Passan, “infingardi”, i giorni, pedissequi o a inseguirti, ma non ti scalfisci, e quella folgorazione è ancora viva.
Voce, la mia, soffusa, d’un film che non s’offusca mai.
Di notte vengono fuori gli animali più strani
Iris del gruppo Mediaset propone da stasera un ciclo di nove pellicole dedicate a Robert De Niro, che, ripetiamolo, per i tardi di comprendonio e per i detrattori che ancora brulicano (purtroppo esistono anche quelli e dobbiamo sopportarli), è indiscutibilmente uno dei massimi interpreti della storia del Cinema.
Si parte col capolavoro immortale di Scorsese, quel Taxi Driver, Palma dOro al Festival di Cannes del ’76.
Immerso nella fotografia di Michael Chapman, è un film che non ha bisogno di presentazioni, a ogni nuova visione acquista sempre più fascino e valore.
Travis, Uomo della Notte, “straniero” in un Mondo “ostile”, angelo marchiato nella solitudine, ombra adombrata dalla sua ansia e da un insostenibile male di vivere che lo condurrà a un gesto salvifico, quasi una catarsi per rinascere.
Non mi soffermerei a elogiarne i meriti, mi parrebbe pleonastico, su questo film epocale si è scritto di tutto e di più.
È un dovere innamorarsene, amarlo, ed essere eroi metropolitani delle luci al neon, delle strade malfamate di un’America alienata che guarda le depravazioni, lo Sguardo febbricitante di un Uomo “solo” anche in mezzo alla folla, della furia che lo possiede nel suo trasformarsi in giustiziere, il cowboy col taglio da mohicano, in un’America che non dorme sogni tranquilli, soffre d’insonnia.
Magnifico, insuperabile, una perla fra le perle del grande cineasta Marty e del suo sceneggiatore “di fiducia” Paul Schrader. Oltre il capolavoro, oltre tutto e l’immaginabile.
Cowboy notturno
7 Dicembre 2011, ore 21:10…
Ripassa sul canale, Iris, o da pronunciar “airis” come Jodie Foster…
Ermetici, nottambuli, svagar nell’ammansito pudor che s'”orgasmizza“, “lacerato” a pelle o in sé allacciato, di stentorea fame in un marmoreo grido che fu tetra, feral oscurità dell’anima incupita o nelle tiepide luci lunari “assolata” nella sua pacata solitudine che si “crepuscolò” nell'”evanescendola”, assiderato da battiti cigliari nei “gracchii” del gelo o d’una maschera funerea a scolpir le cardiache levità sempre assopite, i tenui grovigli ad avvinghiarla per auscultar solo profumi mai incendiati, selvaggio crepitio d’offuscate danze nella Notte e nella sua immersione opaca in sulfurei colori per abbagliar la nudità mai abbigliata o le palpebre timorose d’accecarla nei “vitrei” fremiti.
Passeggero di nera cupezza o di suo puledro ero(t)ismo, nell’incendio di “cristalli” tonanti di densa foschia “glaciale” o di morbidezze innamorate di angeli biondi a temprar la lussuria avvincendola all’ischeletrica insonnia che “martirizza” il sonno e anche il risveglio, l’imperioso boato dei madidi labirinti a giacer con le iridi nei loro “liquori” più sibillini o liturgici nel soffice romanticismo di graffi intinti nel buio di represse ferocità, il suono della violenza è un vampiro che si squarta “vitorioso” nella catarsi, nel risorgere d’una rinascenza che si terge d’ogni suo peccato, “lagrimandolo” di sangue o d’un altro “nitido” bang dagli affreschi lividi di porpora.
Vitale, ansima di respiri eterei, immortalmente, è vividezza. Alba nel suo urlo magmatico.
E, si strugge, poetico d’un altra “sua” New York.
(Stefano Falotico)
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