Un Falotico letterario non è mai da “prender alla lettera”, anche quando passeggia

20 Oct

 

Sì, Stefano Falotico, nato nel Mondo, dunque “immondo”, il 13 Settembre del ’79, quando Walter Hill sguinzagliava i Guerrieri della Notte, e Marlon Brando “narrava” dell’orrore nella giungla delle nostre Apocalypse Now.

Breve “diagnosi” d’un letterato, appassionatamente spassionato di se stesso, molto “appassito”, ma cinematograficamente vivido, ah, i lividi…

 

Sì, già Joker, ricordai il mio stand by me in una “detection story” molto noir, molto corrugata in me, per amabili lucenze d’una fanciullezza che cresceva.

Il mio primo romanzo, “Una passeggiata perfetta”, su cui taluni ironizzaron definendolo “Una passeggiata disastrosa”.
è’ in realtà uno dei capisaldi della mia mente che iniziò a “vacillar”,  e dunque a scribacchiar o sol a “scricchiolar”, “diaristicamente” avvolta dal mio evolvermi, anche sdrucciolevole.
Presentato dal Docente di Letteratura e Filosofia dell’Università di Bologna, l’esimio Luigi Weber, il libro riscosse grandi consensi, soprattutto fra i “seni” di donne pronte a vezzeggiarmi per un talento che era “esploso”.

A parte gli scherzi, eccovi la sinossi, la prefazione e un breve, ma incisivo estratto:

 

Stefano Falotico nasce a Bologna nel 1979, anno dell’uscita di due must assoluti della storia del cinema: I guerrieri della notte di Walter Hill e Apocalypse now di Francis Ford Coppola.
Da sempre fautore di un Mondo sganciato da moralismi, sostiene il libero arbitrio, il progresso metafisico e la ricerca dello sperimentalismo, la visione “trasversale” delle cose e della realtà, che ritiene essere frutto della nostra mente e non sempre di ciò che gli altri vorrebbero farci vedere.
Adora le vite irregolari, “frastagliate”, senza troppi punti fermi. Fra i suoi interessi il cinema, il “nulla” che riempie, compenetra la vita, il sogno che è movimento. Il sogno che tiene vive le emozioni, le alimenta, le altera, le energizza.

 

Qual è dunque la cifra di Una passeggiata perfetta, che pare opera così slegata e priva di un motivo unificante? La risposta ce la fornisce l’autore stesso nelle pagine iniziali dell’opera, quando istituisce un paragone tra la sua narrativa e la tecnica del regista David Lynch, che a proposito di un suo film caratterizzato da eventi inconsequenziali e paradossali parlava di trasposizione cinematografica dello psychogenic puke, il rigurgito psicogeno, una malattia psichica che comporta il rifiuto della cosiddetta realtà normale e la sua sostituzione con un mondo parallelo che l’individuo alienato ritiene essere l’unico autentico, «una realtà alternativa con regole proprie, da lui tollerabili. Non una semplice rimozione cognitiva, ma un’autarchia soggettiva riflessa», per riprendere le lucide parole dell’autore.

(Dalla Prefazione di Gianni Caccia)

* * *

II

Frank era un tipo alquanto strano. Tutti in quartiere avevano timore di lui per i suoi modi sfacciatamente antiborghesi e allo stesso tempo gli portavano grande rispetto e stima per via della sua acutissima intelligenza. Uno che era meglio non frequentare troppo, ma da cui ci si sentiva irrimediabilmente attratti. Era un grande amico. Il nostro grande amico Frank.

Era una sera in cui soffiava un soffice vento caldo. Passeggiavamo allegri per strada. Ci sentivamo i padroni del mondo.
Invulnerabili, arroccati com’eravamo nelle nostre convinzioni giovanilistiche. Niente e nessuno avrebbe disturbato la nostra amicizia.
Frank era lì in mezzo a noi, pareva divertirsi, accondiscendere alle nostre risate. Replicava in silenzio con la sua faccia eternamente fissa in posa commiseratrice, come chi è avvezzo ad ascoltare stoltezze per provocarsi diletto.
Un sorriso triste che languiva sugli zigomi e dormiva sereno nei suoi profondi occhi neri. Bui, inquieti, permanentemente fissi e mobili.
Per quanto ne so, Frank mi piacque dal primo momento che lo conobbi. Aveva un modo tutto suo di esprimere le emozioni. Era carismatico e freddo, coriaceo come un martello e debole come la dura roccia che si sgretola sotto i suoi colpi. Placido come un lago boschivo increspato dalla brezza serale. Inafferrabile come le alghe che si agitano sotto la sua superficie.
Quando uno pensava di aver capito qualcosa su di lui, eccolo comportarsi in maniera assolutamente imprevedibile, spiazzante, ironicamente caustica. Poi sfoderava il suo inconfondibile sorriso disinteressato e girava lo sguardo altrove.
Alle volte avevi paura a fissarlo negli occhi. Pareva impossessarsi dei tuoi pensieri e non volerli restituire. Frank era una bella persona.

Quella sera il locale era davvero affollato. Eravamo seduti attorno al tavolo con in mano le nostre birre. Frank continuava a ripulirsi la schiuma dalle labbra. Josh, imperterrito, importunava le ragazze dietro di noi con battutine di dubbio gusto. Daniel era zitto e pensieroso e faceva finta di ascoltare quanto Michael aveva da dirgli.
Provai ad attirare l’attenzione iniziando a parlare di politica. La mia iniziativa fu stroncata sul nascere da un’occhiataccia severa di Josh. Deglutii piano ed imbarazzato tornai a meditare in silenzio.
Frank alzò la testa ed incrociò il suo sguardo al mio e mi strizzò l’occhio affettuosamente. Si passò la mano fra i capelli e schioccò le dita, canticchiando sottovoce un ritornello musicale.
Abbastanza sbronzo, Josh si alzò in piedi e barcollante, ballò al ritmo della musica. Poco dopo anche Michael, finito di dar sfogo alla sua loquacità logorroica, fece lo stesso. E a ruota, fu seguito da Daniel, sempre più catatonico.
Rimanemmo io e Frank. Provai ad imbastire un discorso, con esiti vani. Frank era irremovibile. Da quando eravamo usciti, non aveva aperto bocca.
Pareva esser schiavo di uno stupore tranquillo, come se non gli importasse di niente e di nessuno. O per ragion contraria, talmente assorto a riflettere da apparir distratto.
In certi momenti era davvero difficile solo provare ad immaginare cosa gli passasse per la testa. Stava lì ad osservare le macchine sfilare dalla finestra, col suo strano sorrisetto stampato in faccia. Non aveva bisogno di dirti che non desiderava parlare. Lo si capiva benissimo.
Lo fissavo, ticchettando con le dita sull’orlo del bicchiere, forse per richiamare la sua attenzione. Per un attimo volli fortemente che si voltasse verso di me e con irruenza mi bloccasse la mano, urlandomi: «Basta, mi dà fastidio». Frank non l’avrebbe mai fatto, men che meno in quell’occasione. Con lui potevi startene zitto senza provocarti imbarazzo.
Quel picchiettare ripetuto doveva martellargli le cervella, ne sono convinto, ma non era il tipo che t’avrebbe violentemente intimato di smettere. Soprattutto se eri l’unico possibile interlocutore seduto al suo fianco. Sarebbe stato come dirti: «Non sopporto la tua compagnia. Se proprio hai da dire qualcosa, dilla».
Frank era forse un fine provocatore. Aveva rifiutato cortesemente di parlare, e nonostante i miei timidi, persuasivi sforzi, continuava a rifugiarsi nel suo obbligato mutismo.
Pareva sussurrarti: «Sono qui, forza, se decidi che ti rivolga la parola, riprendi nuovamente a parlare. Stasera non ho voglia di essere contento a tutti i costi, però non è detto che non lo sia. Non sono in vena di parlare, ma non è detto che tu non possa farmi cambiare idea. Far rumore, sbattendo forsennatamente le dita non serve a niente. È per questo motivo che tu acuisci in me la convinzione di starmene zitto. Sbagli atteggiamento».
Un’altra persona credo sarebbe rimasta oltremodo spazientita dai suoi modi. Io invece con Frank stavo bene. Non chiedetemi perché.

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