Non sono il 67 di “Shutter Island” ma il n. 74 di Dylan Dog, “Il lungo addio”, qui doppiamente recensito dal sottoscritto e da Gianluca Viola
Su Facebook, ieri Notte vengo contattato da Gianluca. Avevo lasciato le casse al massimo, e mi stava prendendo l’abbiocco. Quando all’improvviso ecco la chat che spacca i timpani
– Ciao Ste. Ho da proporti una collaborazione?
– Ciao Gian…, dimmi.
– Hai mai letto “Il lungo addio” di Dylan Dog?
(Qui divento totoiano…) – Questa è bella, è bellissima. Uno dei miei numeri preferiti in assoluto. Insomma, quel fumetto è la storia della mia vita. Lo lessi in Terza Media, all’epoca volevo scoparmi una certa Tiziana, n’ro innamorato.
Poi, sono diventato l’indagatore dei miei incubi. Quindi, mi son risvegliato e Lei s’è sposata con un morto vivente. Secondo me, adesso rimpiange il mio “becchino”.
E dire che quel Pierre, suo coniuge, prendeva ripetizioni da me alle elementari. Mah, “alimentandosi” avrà limonato meglio di baffi. Sì, il cognome di codesta è Laffi.
Ricercatela su Facebook. Se mi denunceranno gli sposi, io non mi sposerò mai come Dylan Dog. Di mio, cazzeggio. Perciò, querelassero senza querimonie.
Ho qualche amico, uno “immaginario”, la mia coscienza del Grillo Parlante, si chiama Groucho Marx. Caccia delle freddure che fan vomitare, ma cucina bene. Battute scatologiche tipo “peti” alla Ugo Tognazzi.
Non so come prenderlo, mi sa che mi piglia per il popò. Da cui il detto “Dio li fa e poi li accoppia”.
Infatti, ho il fegato spappolato. Mah, non è colpa solo di Groucho e della sua “arte” culinaria, diciamo che alla “porzione” van aggiunte le mie palle senza il culo di Tiziana.
Mi consolo con l’insalata. Non è acida, a differenza di quell’anatra all’arancia (meccanica?) di suo marito.
Bene, veniamo a questioni più serie.
Non perdiamoci in puttan(at)e.
Anche se, ribadiamolo, quel sedere è grosso più della mia fortuna. Non è un grande sedere a “darcela” tutta ma, considerando il mio notevole uccello “sognante”, c’è di che piangere.
Questa è rima baciata. Molto alla Sconsolata…
Queste sono le recensioni…
L’esoterico indaga, c’inebria in st(r)ati sottili, impermeabili ove riaffioran le memorie dimenticate.
Una certa Marina Kimball è il nostro risveglio, la vaghezza adolescenziale d’una vacanza al mare, innervata di tuffi “suicidi”, d’immersioni nell’acquatica danza del nostro fanciullo romantico.
Quando, nelle profondità aromatiche, “annegammo” a visioni roboanti e un galeone pirata c’apparve prima del singhiozzo letale che forse fu solo tramortirci di amore. Ah, il tramonto…
Bionda, delicata, in costume da infarto, o bambina anch’ella come te, Dylan Dog, che credi all’esistenza del paranormale, spauracchio “cimiteriale” tu stesso contro la scienza e la medicina “ufficiale”.
Tu chiacchieri con Groucho Marx, spettro di un altro inesistente tuo vivere d’altre dimensioni, e credervi in un Mondo che non dà più valore ai sogni, alla metafisica, all’eccelso involarsi per oceani dell’irrealtà cangiante, a evocarti ere fertili di fantasie, fecondissime di miti e leggende.
Quando la gente si raccoglieva attorno a un falò e, nel crepuscolo della sera, partoriva storie dell’orrore, “mostri” alla Mary Shelley, e si vampirizzava con Dracula, mutanti, epigoni ed epopee sul plenilunio dei licantropi.
Altri tempi, li rimpiangiamo, noi figli di quel Dio intrepido del Cielo fra gli alti monti, sacro a “maledirci” da notturne creature ombrose, quindi lucenti più del diamante nei venti delle praterie americane. Adiacenti…, alla diaccio!
Grotte, spelonche, donne letiziose e sublimi baci incantati anche a marina palpitazione delle nostre intimità svelate, noi che sfidammo il vaso di Pandora e lo scoperchiammo, timorosi solo d’esser travolti dall’essenza animistica, celtica, vitale in grazia delle nostre anime.
Noi, “animali” dell’underground, fumetti viventi fra questi zombi “tranquilli”.
Ogni evento non è mai un caso e tu Dylan recitasti alla tua bella un “Chi ti vuole bene, ti fa piangere”.
Lei se la segna, il tuo Cuore è (as)segnato. Facile bersaglio mio Dylan, gentile, tenebroso, affascinante e proprio figo, nonostante talvolta perdi la bussola e anche la strada.
Svolti a sinistra, sei sicuro che nelle campagne londinesi non si debba tener la destra e che le strisce bianche son dritte e non di sbilenca via traversa. Chissà, finalmente quella giusta, ti trovo bene, “indossi” la belt(à) di chi ha la testa a posto, speriamo non scoppi il volante del tuo volubile troppo d’umori traballante. Tu Dylan che rispetti solo il tuo codice, “penale” per gli assassini e amico dei freak. Che cazzo di strano Uomo.
Auto-centrato, sempre in balia dei suoi deliri, ma ti piaci anche troppo. Quindi, chi esagera, merita il massimo. Questa è mia, Falotico. Stringimi la mano, succhiale il collo, t’ha già morso quella.
Insomma, amala senza fronzoli, spicca di nuovo il volo. Spacca il culo! Troppe indagini han reso Dylan stanco.
Devi innalzarti, mio Cavaliere Oscuro. Non imbarazzarti, imbizzarriscilo, Lei ti vuole, tu la vuoi e uno più uno non fa solo due amplessi ma scopate tutta la Notte…
Moltiplicandovi in un corpo solo. Intanto, fuori piove, tuoni e fulmini, che tempesta e Lei si rimette la vestaglia.
Che figa così illuminata dal Sole appena desto, e tu sei maleducato e maldestro. Non le offri neppure la colazione, che coglione.
In questo “Il lungo addio” non succede nulla. Tutto un ricordo che sfarfalla, la farfallina di Marina, fra un’autoradio che “batte” i Beatles, il solito Dylan Dog finto scontroso, coi suoi adorabili capricci, un po’ di metallo pesante nel cervello, ma forse vuole solo del tè.
Allora Marina dagli del Tu e, fra il dire e il fare, è passata un’altra Estate. Ah ah!
(Stefano Falotico)
Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, di essercela tanto presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quando si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci. A pezzi o interi, non si continua a vivere ugualmente scissi? E le angosce di un tempo ci appaiono come mondi talmente lontani da noi, oggi, che ci sembra inverosimile aver potuto abitarli in passato.
Partire dall’incipit di uno dei migliori romanzi della nostra letteratura moderna, “Seminario sulla gioventù” di Aldo Busi, forse permette di avere una miglior e maggior visione del testo di cui si parla in questo spazio. L’anonima mestizia pura e semplice che si prova nel confrontarsi, la maggior parte delle volte, con il proprio passato, di tanto in tanto, produce solo semplici amarcord sognanti e lacrime di coccodrillo, inutili. La nostalgia è il sentimento più melò di tutti, più dell’amore. Il rimpianto è un evergreen, va bene per tutte le stagioni e per tutti i tempi, ed è anzi difficile non comprenderlo in sé e per sé, è più facile comprenderlo quando si tratta di altri… è facile tornare con la mente, a meno di malformazioni cognitive di memoria, al proprio passato remoto, nonostante esso sia più remoto che remoto non si può. A tutti sarà capitato, volgarmente a volte, di tornare al passato, nonostante si volesse restare coi piedi ben piantati nel presente. Un lungo addio è quello che si predispone in questo caso la storia: cos’è un lungo addio? C’è antitesi tra i due termini, e sì che l’addio indica qualcosa di lungo, di eterno, ma il momento dell’addio deve essere un qualcosa di rapido, di scattante, affatto lungo. Quando un addio diventa lungo, diventa automaticamente un arrivederci forzato e forzoso. Ed è quello che succede a tutti gli amori passati, a quelli che non si è riusciti a trattenere. Chissà cosa resta non solo del dolore, ma anche del piacere che si prova da giovani? Cosa diventa nel lungo andare, nell’eterno, non più nell’immediato, il piacere che si prova da ragazzi? Tutta questa spropositata dose di piacere, rimane intrinseca in ogni mini particella di noi esseri umani, o si disperde, come il polline di un fiore, portato via dai devastanti pungiglioni del tempo che passa? Innamorarsi da ragazzi non solo è facile, è d’obbligo. Sentirsi dire “ma di che ti vuoi innamorare, che hai quindici anni e non puoi capirci un cazzo”, come se ci fosse l’età corretta. E invece è stato (per me è ancora) il tempo dei baci sotto la pioggia, dei bigliettini nei corridoi scolastici, delle sbronze con relative urlate in faccia all’amata. E delle vacanze estive, sì. Credo che ognuno possa rivedersi, anche minimamente, nella storia di questo “lungo addio”. L’amore regalato e poi perso, così, quasi inavvertitamente, su una spiaggia, un mare, uno scoglio, una riva. La bellezza segreta che sta nell’attimo in cui ti rendi conto che stai per fare qualcosa che non potrai mai più ripetere. Puoi vivere con un tale per vent’anni e considerarlo un estraneo. Puoi passare con un altro venti minuti e portartelo dentro tutta la vita, scriveva Oriana Fallaci. E così forse accade per gli amori passeggeri, quelli estivi, quelli persi, forse volutamente, forse lasciati andare per troppa paura. Mi viene in mente una vecchia canzone di Georges Brassens, “Les Passantes”, che racconta dell’amore possibile che non si crea mai, con tutte le donne che fanno da contorno nella nostra vita, le sconosciute con cui non parliamo fisicamente, ma con cui, magari, i nostri occhi fanno l’amore. Ed è un po’ così che accade anche con quelle donne che magari conosciamo, incontriamo, “possediamo” per un po’ di tempo, e poi lasciamo andare via, così, senza motivo. Quelle stesse donne che forse amiamo per sempre, senza accorgercene, pensando di averle dimenticate. A tutti questi amori è dedicato “Il lungo addio”, forse il miglior Dylan Dog di sempre. Una poesia delirante e onirica sull’amore che ritorna, contro ogni preavviso e contro ogni forza esterna, l’amore che vince, che distrugge ogni barriera d’ovvietà (persino Groucho si piega, nella sua serietà improvvisa, a quest’amore), l’amore che ama ed è riamato. Scrive Rilke, “chi viene amato passa, chi ama resta”. Ma dove resta? In cosa resta? In dei gesti precisi (portarsi indietro i capelli), in eclamazioni(Giuda Ballerino!), in dialoghi (Senti… Cosa? Niente), in luoghi (il luna park, la ruota panoramica). Un albo che celebra l’intimità del sentimento del ricordo innanzitutto, con echi proustiani evidenti, credo che in esso siano raccolte tante esperienze condivise da larga parte del pubblico. E quindi, la prossima volta che vedete una stella cadente, pensate a un ultimo desiderio riguardante il vostro passato. Magari che lui o lei vi possano accompagnare per quell’ultimo viaggio, quello più strano e difficile. E dunque, “che cosa resta di tutto il dolore che ho creduto di soffrire? Niente, soltanto delle reminiscenze contraffatte, delle fiabe apocrife.”
(Gianluca Viola)
Questo è il video, sparatelo!
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