Il grande Lebowski
Il bowling d'”asfalti” nitidi nel drugo “rugarla”
Los Angeles, issata nelle sue luci di svenevoli neon intrisi dell’effluvio maestoso dei narratori.
Nell’intimo tepore d’un Uomo, una pigrizia d’esuberanza vivace nel grigiore di vite appassite nel loro passo “felpato” da “benestanti”.
Parassitario cerbiatto addolcito nell’anima, che vaga in un picaresco viaggio nottambulo, tra la sua identità “sovraimpressa” e immersioni nella nichilista dormienza di spettrali surrealismi, madidezza d’un white russian, candor nelle vene che la danzan assopiti in ciglia senz’accidia, su una pista ove si “balla” innalzati nel grembo del “fanciullismo”.
Forse, le memorie incastonate nel terso liquore… ché gorgoglierà sempre armonica per le tue eteree “amniosi”.
Personaggio di creatural levigatezza, immerso in sé, nel sognarla di librate fughe, forse dalla noia o dal Tempo che non “arrochirà” le illusioni, intinto in Lune di luci morbide “abbarbicate” a “scarpette rosse“, per musical “valchiri” ove le ballerine sventolan nella festa d’ormonali occhi allibiti dal loro, floreale, vivido, monroeiano profumo di purissimo cristallo erotico che s’innaffia di “birichina” estasi mai ammansita, senza prigionie di chi la svezzerà dal Sogno, per avvizzirlo nell’esser “adatti” all’avvezzo o ai vezzi che lo corroborino d’una patina amarognola.
Dude, fluttuerà, incantato dalla svagatezza di cui, fugace, s’imprime in un gioco “strabiliante” che pulsi di labbra “ammattite” nella feroce commedia umana, e poi s’arrampicherà ad altre dormienze, nel Cuore intiepidito da una sbornia o da un’altra mossa guardinga da “can tartufo”, dall’olfatto che non abbaia, ma è “abbagliato” dall’essenza della sua fioca, commovente impalpabilità.
A “trasandarla”, curato nello “scucirla” e non oscurarla, anima che balugina senza fremerla, senza spasmi nervici, la carezza a dondolarla fra nostalgie da cullare e melodie intonate al suo inattaccabile, “sfigato” gaudio.
Menestrello dei colori e dell’arcobalenico “balenarla” di bofonchii, d’un altro pallore triste che non lo stingerà, e d’una “infinitezza” a ronzargli il suo ritmo.
Fra lenti stiracchiarla, un tappeto d’una “indagine” senza detection, e una Venere “vaginale”, libera quanto “pruriginosa” come tutte, a concupirlo perché sia seme, anche della sua “scemenza”.
Dell’adorabile, dorata unicità che tanto lo rallegra, e a cui s’affilia con la sua vita defilata, d’effervescente “bollicinarla” di fantasie.
Jeff Bridges, fra sussulti e una barbetta incolta da chi non si scotta né si scote, e un titanico John Goodman, pagliacco come Lui, della serena rabbia “scolpita” nella “pasciuta” mortalità in cui, noi, siamo. E, mai, sfuggiamo. Nel captarla o capitanarla, pacati, e poi non placarci. Irosi o irascibili, con la bile un po’ nel “caffettierarlo”, questo strano, variopinto, “putrido” Mondo.
Serata speciale, quella odierna.
Nel 1998, qui in Italia, uscì in contemporanea assieme a Jackie Brown. Il film di Tarantino, sempre su Iris, passa subito dopo.
Sono entrambi dei capolavori.
Le coincidenze della “programmazione” dei ricordi…
(Stefano Falotico)
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